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di memoria, cultura e molto altro...      Ravenna, 11 Giugno 2020




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Franco Gàbici è Premio Guidarello di Giornalismo.

Grazie Mario Biondi, per la nuova traduzione dell'Ulisse di Joyce

  Nel giugno del 1960, quando con un ritardo pazzesco fu pubblicata da Mondadori la prima traduzione italiana dell’Ulisse di Joyce, avevo da poco compiuto i diciassette anni, mi godevo la promozione dalla terza alla quarta Liceo scientifico e, devo ammetterlo, mi interessava poco o niente la letteratura amando invece la musica, il calcio, il tennis e le belle ragazze e tutto questo per dirvi che era ben lungi da me l’idea di acquistare una copia dell’Ulisse fresca fresca di traduzione mentre invece mio cugino Gigi, che ha un anno più di me e che anziché bearsi di Paul Anka o di Peppino di Capri preferiva il jazz, Luigi Tenco e Piero Litaliano aveva già in casa quel libro con la copertina orlata di verde pisello che aveva al centro il volto spiritato della Medusa (Litaliano non è un refuso. Prima di chiamarsi Piero Ciampi si presentava come Piero Litaliano, scritto proprio così).
Pareva un libro qualsiasi, come tanti, senza una nota né uno straccio di presentazione che mettesse in guardia il lettore. Lo aveva tradotto il fiorentino Giulio De Angelis che pochi anni dopo però si rese conto che per digerire quel libro occorreva un potente eupeptico e infatti pubblicò un secondo Ulisse al quale associò una sorta di “Guida alla lettura” che recava una introduzione di Giorgio Melchiori (che in occasione della prima traduzione gli aveva dato una mano insieme a Glauco Cambon e Carlo Izzo) e un suo commento.
E quella prima traduzione iniziava col famoso “Solenne e paffuto”, un distico di parole che mi è sempre piaciuto e al quale mi ero talmente affezionato al punto da far le smorfie alle traduzioni che in seguito si sarebbero succedute del capolavoro di Joyce, l’esempio più illustre dei “libri più citati ma meno letti” della storia della letteratura mondiale. Fa “in” insomma, citare Joyce o asserire di averlo letto, anche se in realtà nel pronunciare quest’ultima affermazione molti nasi prendono il largo e si allungano. E devo confessare che quando sono venuto a sapere di questa nuova traduzione l’allegra combriccola dei miei muscoli facciali si è subito attivata per allestire una bella smorfia. Ma quando Luigi Scaffidi, responsabile dell’ufficio stampa de La Nave di Teseo che mi ha fatto avere con grande e cortese sollecitudine la copia dell’Ulisse tradotta da Mario Biondi, mi sono ricreduto perché mi son subito reso conto di trovarmi di fronte a una traduzione straordinaria. Se il primo Ulisse italiano, uscito proprio sessant’anni fa nel mese di giugno (giugno, “il più profondo dei mesi”, come lo definì Curzio Malaparte, ma anche il mese del Bloomsday che dal 1950 si celebra il 16, settantesimo della serie), si presentava al lettore con il volto glabro di note, questo di Biondi ne reca nella prima pagina ben sei e tutte pazzescamente interessanti. A cominciare dalle prime due, che rivelano retroscena impensabili.
Nell’originale Joyce inizia con “Stately Plump Buck Mulligan…”. Sembra una roba innocente e invece state a sentire. Quella “S” di Stately, la P di Plump e la “M” di Mulligan, però, non sarebbero lì per caso ma avrebbero un significato ben preciso. Ecco cosa so legge nella prima: “La Parte prima [dell’Ulisse] deve cominciare con la lettera S di Stephen, la seconda con la M di Molly (Bloom) e la terza con la P di Poldy (Leopold Bloom), che in inglese sarebbero i tre termini del sillogismo aristotelico: subject, middle term, predicate”. Secondo Martin Gardner, si legge invece nella nota 2, anche queste prime parole nasconderebbero il gioco di lettere SPM: (Stately Plump (Buck) Mulligan). Non SMP, però. Il pirotecnico Joyce avrebbe benissimo potuto scrivere: Stately, Mulligan, plump, Buck”.
Basterebbero queste annotazioni per togliersi il cappello davanti alla traduzione e alle postille di Biondi che ha anche un altro merito. Quella di avere anteposto al testo la mappa di Dublino del 1904 perché è notorio che Joyce scrisse il suo capolavoro tenendo sulla scrivania la mappa della città. E così mentre il lettore si scapicolla fra testo e note gli viene pure la sensazione di andare in giro per Dublino.
Confesso, e non me ne vergogno, di non aver mai raggiunto l’ultima pagina dell’Ulisse, ma di essermi fermato circa a metà strada e ricordo che l’occhio a suo tempo mi cadde sulla citazione della stella Sirio che secondo Joyce brillare a 10 anni luce da noi. Eh no, caro James, qui ti sbagli e glielo feci notare in un articolo che l’amico Piero Bianucci citò nello “Specchio”, supplemento della “Stampa”, nel giugno del 2004. Ma anche Biondi, in una opportuna nota, evidenzia l’errore e giustizia è fatta.
Il libro, uscito nella collana “Oceani” de “La Nave di Teseo”, è davvero un… oceano (di parole) nel quale si rischia il naufragio. Questo “romanzaccione”, come lo definì lo stesso Joyce in una lettera all’amico Carlo Linati, fa veramente spavento e, come scrisse Giorgio Zampa al suo apparire nella prima traduzione italiana, sembrava avere tutte le carte in regola per scoraggiare il lettore che in effetti rischia di inciampare fin dalle prime battute. Ora però Mario Biondi offre al lettore le stampelle giuste per poter procedere spedito nella lettura. Ho già iniziato a leggere questo nuovo Ulisse ma per mia curiosità sono andato a rispolverare una vecchia edizione tutta chiosata a matita dalle mie annotazioni a margine che però si fermano all’episodio delle “Mandrie al sole”. Attenzione, però. Mario Biondi spiega nella sua prefazione, gustosa e tutta da leggere, che gli è parso “poco utile tenere conto dei titoli suggeriti da Joyce per parti ed episodi onde connetterli con la vicenda originale dell’Odissea. Chiedo perdono, ma li trovo piuttosto artificiosi”. Niente mandrie, dunque. Scelta coraggiosa e indipendente. Ma questa volta mi sa tanto che oltrepasserò le mandrie e arriverò fino in fondo così potrò dire, senza temere che il naso mi si allunghi, che anch’io ho letto questo capolavoro dalla prima all’ultima pagina.

Franco Gàbici




 

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è stato dal 1985 al 2008 direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno - Avvenire. Presidente del comitato ravennate della "Dante Alighieri" è autore di numerosi saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996) e del sacerdote scrittore don Francesco Fuschini “Un prete e un cane in paradiso” (Marsilio, 2011), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002), "Buon Compleanno,ONLY YOU!" (SeBook, 2005), Una Canzone al Giorno" (Simonelli Editore, 2007). È fondatore e direttore responsabile del “Bollettino dantesco per il VII centenario”. Nel 2007 gli è stato conferito il Premio Guidarello per il giornalismo d’autore. Nel 2019 ha vinto il Premio Comisso con la biografia “Leo Longanesi. Una vita controcorrente” (Il Ponte Vecchio, 2018).


Franco Gabici

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