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Parliamo tanto di cinema
In compagnia di Platone, Luigi Pirandello, James Joyce, Giuseppe Tornatore.
L'invenzione del cinema risale molto prima dei fratelli
Lumiére, oh sì, e credo che occorra andare anche molto
indietro nel tempo, non dico al tempo delle caverne ma
quasi, e in effetti una “caverna” c’è ed è quella
dell’omonimo mito raccontato da Platone nella “Repubblica”.
Non so se i miei quattro lettori ricorderanno questo topos
platonico che più o meno si può riassumere dicendo che
all’imboccatura della caverna è stato acceso un falò, di
fronte al quale passeggiano degli oggetti, le cui ombre si
proiettano proprio sullo sfondo dove alcuni schiavi,
incatenati a terra, sono obbligati a vedere questo
capolavoro di film “ante litteram” (c’è in tutto questo una
sorprendente attualità perché oggi, per vedere certe
schifezze, bisognerebbe proprio incatenare gli spettatori
alle loro stramaledette poltrone). Il tutto ha ovviamente
una sua morale e sottintende la grande questione
ermeneutica di Platone che consiste nel ricercare la vera
struttura degli oggetti partendo dalle “forme” che si vedono
proiettate nel fondo della caverna.
Chissà perché mi è venuto in mente questo “mito”, mah, ma
quando si confezione una “Bollicina” bisogna pur partire da
un argomento e io per la verità avevo in testa di parlare
del cinema ed è per questo motivo che mi si è affacciato
alla memoria Platone anche se la mia intenzione era quella
di offrirvi certe considerazioni di Luigi Pirandello,
affascinato dal cinema al punto che ha scritto quello
straordinario libro che si chiama “Quaderni di Serafino
Gubbio operatore” che bisognerebbe leggere tutto quanto
perché è veramente bellissimo. Quando Pirandello scrive, il
cinema si può considerare appena nato. Il romanzo, infatti,
era uscito nel 1915 con il titolo “Si gira…” ed era formato
da una serie di puntate (una specie di fotogrammi dunque)
apparse su “Nuova Antologia” poi raccolte in volume da
Treves l’anno successivo e finalmente nel 1925 esce presso
Bemporad la nuovissima edizione col titolo che è quello con
il quale oggi il romanzo è conosciuto. Interessantissime le
considerazioni dell’operatore Serafino (“Sono una mano che
gira la manovella”), che sembrano anticipare quelle di
Alfredo in “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore: “Io
ho cominciato questo mestiere a dieci anni e a quei tempi
non è che c’erano queste macchine moderne… Le pellicole
erano mute, si girava a mano, sempre così, con la manovella,
ed era così dura questa manovella… E se uno si stancava un
poco e perdeva la velocità, d’un colpo se ne andava tutto a
fuoco…”.
La mano che gira e che gira la manovella. Le mani!
Chi lavora per costruire un film ha l’impressione (sono
sempre considerazioni di Serafino Gubbio) di essere dentro a
un ventre “nel quale si stia sviluppando e formando una
mostruosa gestazione meccanica. E quante mani nell’ombra vi
lavorano! […] Mani, non vedo altro che mani, in queste
camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui
il tetro lucore delle lanterne rosse dà un’apparenza
spettrale. Penso che queste mani appartengono ad uomini che
non sono più; che qui sono condannati ad esser mani soltanto
queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non
serve. Solo come strumento anch’esso di macchina, può
servire, per muovere queste mani. E così la testa solo per
pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco
m’invade tutto l’orrore della necessità che mi s’impone, di
diventare anch’io una mano e nient’altro”.
Siamo di fronte
all’incubo di una “manificazione”, una “chirocynt sis” (non
perdete tempo a cercare un vocabolario di greco perché il
termine l’ho coniato io adesso, ispirandomi alla “zucchificazione”-Apocolocynt
sis di Lucio Anneo Seneca, sì l’educatore di Nerone, a
dimostrazione che a volte non sempre i metodi educativi
funzionano come dovrebbero…). Anche Malte Laurids Brigge
aveva pensieri da incubo sulle mani “Ancora per un poco
posso scrivere e dire tutto. Ma verrà il giorno in cui la
mia mano sarà lontana da me, e quando le ordinerò di
scrivere, scriverò parole che non volevo”. Sarà per questo
che molti scrittori ci propinano lavori che sembrano scritti
con i piedi? Mah, fate un po’ voi.
E tutte queste mani che lavorano e che tramano non fanno
altro che concorrere alla costruzione di una menzogna “Ma
come prendere sul serio un lavoro – sentenzia il buon Gubbio
-, che altro scopo non ha, se non d’ingannare – non se
stessi – ma gli altri? E ingannare, mettendo su le più
stupide finzioni, a cui la macchina è incaricata di dare la
realtà meravigliosa?”.
Eppure questa grande finzione ha affascinato personaggi
della caratura di James Joyce, che tra l’altro contribuì
alla realizzazione della prima grande sala cinematografica
di Dublino, e in qualche misura il cinema è entrato nel suo
“Ulisse” dove l’episodio delle “Rocce vaganti” è stato
proprio costruito sulla tecnica del montaggio
cinematografico.
Il cinema dunque è una cosa seria, altrochè. Ma adesso devo
proprio chiudere perché mi stanno chiamando per andare al
cinema. Quasi sicuramente mi trascineranno a vedere un film
con Christian De Sica e Massimo Boldi. Il cinema è proprio
una cosa seria, davvero.
Franco Gàbici
Le citazioni di Pirandello sono tratte da “Quaderni di
Serafino Gubbio operatore” (Oscar Mondadori, Tutte le opere di L.P., pp. 39,
55-56 e 57).
Malte Laurids Brigge è il “personaggio” de “I quaderni di M.L.B.” di Rainer
Maria Rilke e la citazione è tratta dall’edizione di Garzanti - I Grandi Libri
del 1974 a pag. 39.i
Simonelli Editore consiglia di leggere:
Gadda - Il dolore della
cognizione di
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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