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Primo titolo:
Franco Gàbici «Gadda - Il dolore della cognizione»
Una lettura scientifica dell'opera gaddiana - Isbn 88-86792-40-9

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di memoria, cultura e molto altro...




Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

7 ottobre 2002

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Non so se vi sia mai capitata l'esperienza di osservare il mare alle porte dell'inverno, quando la sabbia sembra un deserto sconfinato senza più ombrelloni e senza la gente che sta rosolandosi al sole. È una esperienza triste, quasi metafisica. Chiudi gli occhi, ascolti la voce del mare e quello sciabordio può farti venire alla mente sia lo sciaguattio dell'acqua del lavello di casa tua mentre qualcuno sta lavando i piatti o altre situazioni meno casalingo-domestiche. A me, antico appassionato teilhardiano, mi sovvengono quelle belle parole che il Gesuita proibito affidò a una lettera e che dicevano più o meno così: «l'acqua lava la malinconia di questa spiaggia grigia», in linea con quanto affermava Flaubert che «il mare ispira ai borghesi pensieri profondi».
Il mare. Bellissimo nel suo lapislazulesco azzurro nella stagione estiva, ma malinconica e quasi terribile visione quando sulla grande tavola appena increspata dal vento iniziano a galleggiare i colori dell'autunno, con il mare verdastro. Verdemoccio. «Il mare verdemoccio. Il mare scrotocostrittore. Epi oinopa ponton». Per chi non l'avesse ancora capito siamo dentro al grande mare dell'Ulisse di Joyce e l'ultima citazione è dall'Odissea di Omero (quel mare purpureo). «Ah, Dedalus, i Greci. Ti devo erudire. Li devi leggere nell'originale. Thalatta! Thalatta! È la nostra grande dolce madre. Vieni a vedere...». Il mare. «Sono qui per leggere le segnature di tutte le cose, uova di pesce e marame, la marea avanzante, quella scarpa rugginosa. Verdemoccio, azzurrargento, ruggine: segni colorati...». Stephen Dedalus chiude gli occhi «per sentire le sue scarpe schiacciar scricchiolanti marami e conchiglie». Cogliamo l'immagine delle cose e non la loro intrinseca realtà. Ma questa è la filosofia di Berkeley, «il buon vescovo di Cloyne estrasse il velo del tempio dal suo galero: velo dello spazio campìto di emblemi colorati...». Berkeley! Ogni filosofo aveva il proprio slogan che ne riassumeva il succo della loro filosofia. Cartesio o Descartes? Cogito ergo sum! Lo sanno anche i muri. E lo slogan di Berkeley? Beh, mica tutti lo sanno. Esse est percipi. Frequentavo la quarta liceo quando cercavo di capire questi concetti. Le cose esistono solo in quanto sono percepite. D'accordo, ma allora come la mettiamo con le idee astratte? Se io penso ad una "retta", non penso mica a tutte le "rette" che ho percepito in vita mia, ma penso ad un'idea astratta di "retta". Mah! E forse aveva ragione quel personaggio di Rilke quando raccontava dei suoi "immischiamenti" coi numeri: «Nessuno Ð diceva a proposito dei numeri Ð ne ha mai visto uno, se non sulla carta. é escluso che si possa incontrare in società, per esempio, un Sette o un Venticinque. Semplicemente non esistono...». Mah! A tutto questo ero costretto a pensare durante l'anno scolastico 1960-61, quando il tempo era scandito non dal nacheinander e dal nebeneinander, ma da Il cielo in una stanza cantato da Mina (disco Music, orchestra Tony De Vita), da 24000 baci cantata da Adriano Celentano (disco Jolly, orchestra Ezio Leoni) e da What a sky sussurrata da Nico Fidenco, che si chiamava in realtà Domenico Colarossi (la canzone, inserita nel film I delfini di Maselli, era firmata dallo stesso Maselli insieme a Cassia e Fusco. Uscì su disco Rca e aveva in copertina un Thomas Milian che stringe fra le mani un bicchiere mentre sullo sfondo si vede, in una atmosfera fumosa, la bellissima Claudia Cardinale. Sul retro del disco, a 45 giri ovviamente, si poteva ascoltare sempre la stessa canzone, però cantata in italiano col titolo Su nel cielo. In realtà nella colonna sonora doveva essere inserito un pezzo di Crazy love cantato da Paul Anka Ð che ne era anche l'autore Ð ma il regista rinunciò perché Anka aveva preteso come diritti d'autore una spropositata barca di quattrini. Crazy love, su disco Columbia, era invece uscito nel 1959 accoppiato con Let the bells keep ringing, un allegro motivetto che raccontava una storiella d'amore ambientata, guarda te, a Napoli, che Anka pronunciava esoticamente Napolì. Ragazzi, se non è cultura questa...).
Poi in quell'estate del 1961, l'anno in cui si celebrava l'unità d'Italia con la famosa manifestazione torinese "Italia 61" sulle rive del Po, scoppiò il caso di Legata a un granello di sabbia, cantata e ricantata dal Fidenco per tutta l'estate al punto che perfino i tedeschi che affollavano le nostre spiagge l'avevano imparata quasi a memoria.
Ma guarda un po' dove mi ha condotto il mare con le sue malinconie autunnali! Mi ha condotto sulla grande spiaggia del tempo dove è possibile raccogliere i gusci vuoti delle conchiglie e portarli all'orecchio. Quando eravamo bambini era uno dei nostri giochi preferiti sulla spiaggia. Si raccoglieva una conchiglia, di quelle cave, la si accostava all'orecchio e lei ti restituiva l'irrequieto respiro del mare. Oggi raccatti conchiglie, te le accosti all'orecchio e non senti un bel niente, perché tutto attorno a te è rumore e chiacchiericcio, coi bagni della spiaggia che fanno a gara a suon di decibel e soffocano il rumore del mare, che invece ha bisogno del silenzio. Dimensione perduta e dimenticata. Abbiamo paura del silenzio, perché è un ponte levatoio gettato sui rumori del mondo per arrivare alle porte di noi stessi. E per concludere gustatevi quest'altro ezzo rilkiano: «All'esterno molte cose sono cambiate. Non so come. Ma nell'interno e dinanzi a Te, mio Dio, nell'interno dinanzi a Te, spettatore: non siamo noi senza azione? Scopriamo, sì, che non sappiamo la parte, cerchiamo uno specchio, vorremmo struccarci ed eliminare il falso ed essere veramente. Ma qua e là ci resta ancora attaccato un pezzo di travestimento, che dimentichiamo. Una traccia di esagerazione rimane nelle nostre sopracciglia, non notiamo che gli angoli della nostra bocca sono piegati. E andiamo in giro così, zimbelli e creature dimezzate: né uomini veri né attori». Ecco perché abbiamo paura del silenzio.

Franco Gàbici

 

La citazione di Teilhard de Chardin, frutto di una lettura giovanile, si trova nell'archivio della mia memoria.
La considerazione di Flaubert è citata da Ennio Flaiano nel suo Diario notturno. Se vi interessa è alla pagina 283 dell'edizione Adelphi 1994.
I passi di Joyce sono tratti, ovviamente, dall'Ulisse.
Le elucubrazioni sui numeri provengono da Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Milano, Garzanti, 1974, p. 137, mentre l'altra citazione straordinaria è a pag. 187.

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996).

 

 

 

 

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