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Primo titolo:
Franco Gàbici «Gadda - Il dolore della cognizione»
Una lettura scientifica dell'opera gaddiana - Isbn 88-86792-40-9

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Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

9 dicembre 2002

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Di questo Pinocchio non ne posso proprio più, ma purtroppo sono stato coinvolto in una serata dedicata a questo sacratissimo burattino e seppure obtorto collo ho dovuto parteciparvi per non fare la parte dello snob. Ovviamente sono andato a rileggermi il collodiano Pinocchio, che non avevo preso in mano da quel dì, e se devo proprio dire la verità non è che mi abbia troppo sconvolto. Sì, d’accordo, è una simpatica favoletta, ma mi sembra che il buon Collodi abbia messo troppa carne al fuoco e abbia mescolato troppe situazioni paradossali. E poi la morale è scontata e borghese, della serie "se non fai il bravo vai a finir male" che poi non è affatto vero, perché ricordo ad esempio che nel Male oscuro di Berto si leggono le profezie del severo padre che profetizza al figlio non proprio modello che la cosa migliore che gli sarebbe potuta capitare era quella di finire in galera e invece, guarda te, Berto in un colpo solo guadagnò col Male oscuro sia il Campiello che il Bancarella.
Dunque torniamo al Pinocchio e mentre leggevo la storia del burattino di legno che piano piano, attraverso una difficile metamorfosi, si trasforma in un bravo bambino, ho cercato di andare alla radice dell’idea collodiana per scoprire che l’idea di far parlare un pezzetto di legno non è poi così straordinaria. Insomma si tratta di un dejà vu, come spesso succede con buona pace dell’antico adagio che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, di quello della letteratura poi non ne parliamo, e dunque andate a leggervi l’Eneide di Virgilio e precisamente il canto terzo, con Enea tutto intento a sradicare un verde cespuglio per immolare agli dei un toro. Ignaro di quello che gli sarebbe capitato, Enea strappa il cespuglio e rimane di stucco perché dall’arbusto colano gocce di sangue nero che vanno a macchiare il suolo. Enea, comunque, nonostante l’imbarazzo, riprova altre due volte e alla terza per poco non gli viene un accidente perché dal cespuglio esce niente meno che una voce che gli dice: "Quid miserum, Aenea, laceras? Iam parce sepulto" (Perché laceri uno sventurato, o Enea? Risparmia un cadavere) e quindi attacca a raccontargli la sua vicenda. Si tratta del giovane Polidoro.
La storiella di Polidoro che parla attraverso un arbusto evidentemente piacque al sommo Dante, grandissimo estimatore di Virgilio al punto da sceglierlo come sua guida attraverso l’Inferno e il Purgatorio e infatti, trac, nel canto tredici dell’Inferno pure Dante diventa protagonista di una situazione simile. Il ghibellin fuggiasco, infatti, entra nella selva dove nidificano le Arpie all’interno della quale si odono lamentele senza per altro che si veda nessuno ("Io sentia d’ogni parte trarre guai/e non vedea persona che ‘l facesse", vv.22-23) e Virgilio, che la sapeva lunga per via della faccenda di Polidoro, gli suggerisce di staccare un rametto ("Se tu tronchi/qualche fraschetta d’una d’este piante,/li pensier c’hai si faran tutti monchi", vv.28-30). Dante stacca allora un ramoscello da "un gran pruno" e con grande sorpresa si sente dire: "Perché mi schiante?" e poi ancora: "Perché mi scerpi?/ Non hai tu spirto di puetade alcuno?", vv.33 e 35-36). Questa volta era Pier delle Vigne, pure lui trasformato in arbusto.
Da Virgilio a Collodi passando per Dante! Un bell’itinerario, non c’è che dire, e scommetto che nessuno ci aveva mai pensato. Questo Pinocchio, dunque, avrebbe solide radici classiche. Ma tutto questo non lo avrei mai immaginato se mi fossi fatto abbindolare dalle malie del "Paese dei balocchi", dove si gioca, si ride e dove non si studia mai. E invece, dopo tutto, studiare serve. Accidenti se serve. Ti fa sembrare serio persino un pezzo di legno.

Franco Gàbici

 

L'espressione Obtorto collo è usata anche da Seneca nella Apokolokyntosis (11,6), dove tratta di una metamorfosi (la "zucchificazione" del divo Claudio). L'esempio cade a fagiolo perché anche Pinocchio, in fondo, racconta la metamorfosi di un pezzo di legno e precisamente una "bambinificazione"!

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002) .

 

 

 

 

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