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Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

22 Aprile 2002

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Il sole ogni giorno varca l'orizzonte occidentale per cedere il passo alle ombre della notte. Leibniz trattò l'evento da filosofo: «Quando, per esempio, si aspetta che domani faccia giorno, ci si comporta da empirici, perché così è sempre avvenuto fino ad oggi». Lo scrittore, invece, legge l'evento diversamente: «Ma il giorno è finito ed è giunta l'affocata stanchezza del tramonto. La terra ha compiuto, per oggi, il dover suo e si sta preparando nell'alto, quasi per ricompensa delle pene, il supremo spettacolo. Quando non c'è l'intempestiva luna a mettere in mostra il suo piatto d'argentone troppo nuovo, sfavilla in tutto il cielo la solenne illuminazione divina. S'accende una gara di fulgore tra i pianeti vicini e i soli lontani. Le costellazioni cercano di somigliare ai disegni dei libri di astronomia; gli universi-isole vanno alla conquista degli spazi inoccupati; le nebulose, gravide dei futuri sistemi solari, stanno in disparte, come intruse nei cenacoli astrali, ma la Galassia traversa il firmamento da parte a parte, come un corteggio splendente d'intravedibili angeli che s'incammini a un trono, a una festa ultrastellare, a un perenne e indicibile trionfo.
«Lassù tutto fiammeggia e brucia e qui la terra s'acquatta nel freddo oscuro della notte. Lassù tutto corre a velocità inimmaginabili e qua ogni cosa, ogni creatura s'è fermata nelle tenebre immobili del riposo. Fra poco tutti gli uomini di questo emisfero si spengeranno in quella breve morte ch'è il sonno». Questa bellissima descrizione (siete d'accordo anche voi?) è uscita dalla penna di Giovanni Papini e ho pensato bene di passarvela perché non credo sia facile trovare il libro da cui l'ho tratta, essendo una vecchia pubblicazione del 1947. C'è in questa pagina lo stupore della notte (una canzonetta degli anni Sessanta iniziava proprio così: lo stupore della notte spalancata sul mar, la cantava la mitica Mina, ah che tempi!), lo stesso stupore che fece piangere il pirandelliano minatore Ciaula quando «in quella chiarità d'argento» scoprì la Luna: «Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C'era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore».
Si avvertono evidenti echi leopardiani in questa prosa, e come potrebbe essere diversamente quando si parla della Luna? La Luna infatti è feudo di Giacomo ed esiste anche un documento che lo attesta. Lo redasse quello straordinario scrittore che è Italo Calvino: «La luna, appena s'affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. In un primo tempo volevo dedicare questa conferenza tutta alla luna: seguire le apparizioni della luna nelle letterature d'ogni tempo e paese. Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi. Poiché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare. Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l’ombra della sua assenza».
Da sempre poeti e scrittori hanno messo le mani sulla Luna e qualcuno pensò addirittura di conquistarla con la fantasia. Dall'Icaromenippo di Luciano di Samosata a L'Autre Monde ou les États et Empires de la Lune di Cyrano de Bergerac (sissignori, il titolare del naso più famoso della storia), da Francis Godwin che scrisse nel Seicento The Man in the Moone: or a Discourse if a Voyage theither by Domingo Gonsales, the Speedy Messenger a Jules Verne col suo famosissimo Dalla terra alla Luna. Gli esempi sono ben noti. Meno nota, forse, l'avventura astronautica ("Gli emigranti nella luna") che Giovanni Pascoli descrive nei "Nuovi poemetti". Il poeta pensò di scrivere il poemetto dopo aver letto in un giornale che alcuni contadini russi si erano ficcati in testa di salire sulla Luna per trovare terra e libertà, stimolati da uno studente che stava leggendo loro il romanzo di Verne. Pascoli, invece, immagina nel suo poemetto che il libro galeotto sia un testo di astronomia. La Luna è descritta molto bene, con proprietà di termini, a dimostrazione che Pascoli si intendeva di astronomia.
Mentre scrivo, la Luna non è ancora una bianca medusa che galleggia nel blu, ma una piccola falce. È un’unghia di luce che fa il solletico al cielo. Sarà per questo motivo che le stelle sorridono sempre?

Franco Gàbici

 

Le citazioni sono tratte da:
G.W.Leibniz, Monadologia, proposizione n.28
L.Pirandello, Ciaula scopre la Luna
G.Papini, Mostra personale, Brescia, Morcelliana, 1947, pp. 24-25.
I.Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1993, p.31. Il brano è nel primo capitolo dedicato alla "leggerezza" (pp. 7-35).

 

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996).

 

 

 

 

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