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N on tutte le “bollicine” vengono per nuocere, tant’è che qualche beneficio ne ha ricavato
anche il sottoscritto perché, state a sentire, la volta scorsa ho citato quel
giudizio sul famoso calciatore tratto da “La vita agra” del Bianciardi, ma la
mia era una citazione a memoria e mica ero sicuro al cento per cento sicché
per un attimo ho pensato stai a vedere che ho passato ai miei quattro lettori
la citazione sbagliata e così per evitare di cadere nel buco nero della
disperazione sono andato a rileggermi il romanzo di Bianciardi, che è una cosa
stupenda, e stavo ormai per perdere la speranza quand’ecco, zac, è arrivato
puntuale il giudizio sul calciatore e la cosa mi ha risollevato parecchio
anche perché una volta Nico Orengo cadde in errore proprio su “La vita agra”,
ora non ricordo bene come fu esattamente la questione, ma in quei “tassellini”
che firma sulla prima pagina di “Tuttolibri” aveva scritto
qualcosa su un film e aveva confuso la “vita agra” di Lizzani (con Ugo
Tognazzi) con la “vita difficile” di Risi (con Alberto Sordi), sempre “vita”
direte voi, d’accordo, ma non si può confondere l’”agro” con il “difficile”, e
su questo convenne anche lo stesso Orengo che rispose gentilmente al mio
messaggio che gli faceva notare il suo abbaglio.
Insomma, a farla
corta, i casi della vita mi hanno indotto a leggere di nuovo “La vita agra” e
se non lo avete ancora fatto fatelo, soprattutto se avete un’età compresa fra
i quaranta e i sessanta. Ve la caverete con pochi euro perché Bompiani ne ha
fatto recentemente anche una edizione economica. Il capitolo decimo, poi, è un
capolavoro dentro al capolavoro che andrebbe stampato a parte e distribuito a
tutti gli italiani i quali imparerebbero in un colpo solo le ragioni del tanto
chiacchierato boom economico e tutte le sue stramaledette contraddizioni,
insomma andatevelo a leggere questo capolavoro di capitolo decimo e poi mi
saprete dire se Bianciardi non aveva ragione quando, in tempi non sospetti,
predicava che bisognava bandire la plastica, distruggere le automobili e
lasciar crescere l’erba sull’asfalto.
E le sue considerazioni sulla nebbia?
Ricordate il Totò-pensiero in “Totò Peppino e… la malafemmina”, quando il
grande Totò chiede al vicino (detto il “milanese” per via che aveva fatto il
soldato a Milano) delucidazioni sul fenomeno che al sud è praticamente
sconosciuto?
Chiede Totò: “Ma dico, se i milanesi a Milano, quando c’è la
nebbia, non vedono, come si fa a vedere che c’è la nebbia a Milano?”.
Bianciardi, invece, ti fa una bella disquisizione sulla nebbia distinguendo
fra la nebbia di campagna e quella di città, trattandola dunque come i topi di
Orazio nella ben nota satira (olim rusticus urbanum murem mus paupere
fertur accepisse cavo, veterem vetus hospes amicum…) e in effetti
Bianciardi dice che la nebbia è solamente nelle campagne mentre quella che i
cittadini chiamano nebbia in realtà è “una fumigazione rabbiosa, una
flatulenza di uomini, di motori, di camini, è sudore, è puzzo di piedi,
polverone sollevato dal taccheggiare delle segretarie, delle puttane, dei
rappresentanti, dei grafici, dei PRM, delle stenodattilo, è fiato di denti
guasti, di stomachi ulcerati, di budella intasate, di sfinteri stitici, è
fetore di ascelle deodorate, di sorche sfitte, di bischeri disoccupati”.
Ecco
cos’è la nebbia di città, mica storie. Bianciardi aveva proprio ragione,
accidenti. E scriveva tutto questo, come si legge nella chiusa del romanzo,
nell’inverno 61-62, che fu il mio ultimo inverno da studente liceale, il mio
canto del cigno scolastico prima dell’avventura universitaria, studiavamo
Foscolo (le sue Grazie, le sue donne che cascavano da cavallo e “Le ultime
lettere di Jacopo Ortis” che si aprivano con quella drammatica considerazione
scritta dai Colli Euganei proprio in una stagione ottobrina (11 ottobre 1797):
“Il sacrificio della patria è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure
ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la
nostra infamia…”) e Leopardi (con le Silvie, le Nerine e quella sberla di
Infinito), la precessione degli equinozi, l’idealismo di Fichte,
Schelling e di Hegel, si traducevano le Georgiche di Virgilio (Quid
faciat laetas segretes, quo sidere terram vertere, Maecenas, ulmisque
adiungere vites conveniat…) e il De rerum natura di Lucrezio (Aeneadum
genetrix, hominum divumque voluptas, alma Venus…), ma avevamo ancora
nell’orecchio le note di Legata a un granello di sabbia che durante
l’estate ci aveva rimbambiti tutti quanti, tedeschi compresi, che se ne
tornarono al loro paese canticchiando “kullare, kullare…” e mentre noi si
studiava tutte quelle cose che si sarebbero depositate in fondo al nostro
bagaglio culturale, Bianciardi dunque scriveva la Vita agra, che a suo
modo era una nota stonata, ma al tempo stesso era anche una profezia.
Franco Gàbici
Questo è il dialogo
esatto fra Totò (T) e Mario Castellani(C) nel film di Camillo Mastrocinque
Totò Peppino e la… malafemmina (1956):
C: “A Milano quando c’è la nebbia non si vede.”
T: “Per Bacco! E chi la vede?”
C: “Cosa?”
T: “Questa nebbia, dico”.
C: “Nessuno”.
T: “Ma dico, se i milanesi a Milano quando c’è la nebbia non vedono, come si fa a vedere che c’è
la nebbia a Milano?”.
La vita agra, Milano, Bompiani, 2002, p. 167.
La storiella del topo di campagna e di quello di città è in Orazio, sesta satira del Libro secondo.
Legata a un granello di sabbia era cantata da Nico Fidenco (all’anagrafe Domenico Colarossi, classe 1933)
Simonelli Editore consiglia di leggere:
Gadda - Il dolore della
cognizione di
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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