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Dopo 50 anni abbiamo la
televisione che ci meritiamo
Ma auguriamo alla nostra tivù un
buon compleanno, come se fosse una vecchia zia che continuiamo a tenere in casa
perché dopo tutto ci ha regalato dei momenti indimenticabili.
Mentre
sto scrivendo questa "bollicina" ho la tivù accesa e da uno dei tanti programmi
che da mezzo secolo vanno onorando il nostro Paese e concorrono ad elevare
notevolmente il livello culturale dell'italiano medio si sta dicendo che questo
2004 sarà l'anno dei Pesci (zodiacalmente parlando, si capisce. Anzi, sarebbe
meglio dire "zoticonalmente") e le conduttrici stanno pure annunciando, udite
udite, che è in imminente uscita un loro libro, che andrà ad aggiungersi al
nutrito parco dei best seller dei "tivu-writers" (mi son tolto lo sfizio di
creare un neologismo, tanto per far qualcosa).
È sufficiente che il tuo volto sia veicolato, anche una sola volta, dagli
elettroni del tubo catodico e tu sei già personaggio autorevole e vi assicuro
che non sto parlando a vanvera perché un giorno, mentre passeggiavo per le
strade della mia silenziosa Ravenna, ho incrociato un signore che mi ha puntato
il dito contro dicendomi: "Lei l'ho visto alla televisione!". La televisione non
era né la Rai, né Mediaset, bensì una tivù a diffusione regionale, ma tant'è,
l'importante è comparire. Mi sono sentito famoso. Ecco cosa può la televisione,
questo aggeggio micidiale che ci siamo messi allegramente in casa senza stare
troppo a pensare alle conseguenze perché, lo si voglia o no, ha radicalmente
cambiato la nostra vita e le nostre abitudini. Sto dicendo una serie di
banalità, lo ammetto. Solamente Manlio Guberti viveva senza tivù ed era un
grande.
La televisione!
Ricordate l'inizio di "Hollywood o morte?" (1956), ultimo film della copia Jerry
Lewis & Dean Martin?
Dean Martin, prima dell'epifania del Fusijama contornato da una aureola di
stelle che era il marchio della Paramount Vistavision, presenta la pellicola in
questo modo "Questo film è dedicato a voi, a voi che siete scampati alla
televisione…".
La televisione aveva messo in crisi persino il cinema e se i gestori al giovedì
volevano le sale piene dovettero scendere a un compromesso e appiccicare sui
manifesti dei film il cartello con su scritti che alle 21 precise il film, fosse
anche nel bel mezzo della scena madre, veniva interrotto per consentire di
assistere a "Lascia o raddoppia?".
Il primo quiz della serie entrò nelle nostre case il 26 novembre del 1955 anche
se le case, devo dire, non erano molte, perché la televisione era roba da
signori, ma per fortuna la gente si coalizzò e sospinta da quel senso della
aggregazione tipico del nostro popolo nelle grandi occasioni (terremoti,
disastri naturali e, in questo caso, disastri televisivi…) aderì a "collette"
pur di dotare il circolo o la sala parrocchiale di questo diavolo d'una
televisione. E così tutti al bar o dal prete per vedere Mike Bongiorno e senza
dare soddisfazione al parente o all'amico danaroso che con vanesia misericordia
metteva a disposizione il salotto di casa col duplice intento di far vedere il
Mike ma di far pure crepare d'invidia i parenti poveri che non potevano
permettersi il tubo catodico.
Poi arrivò il "boom" e tutti ci siamo messi in casa questo marchingegno senza
immaginare nemmeno da lontano che quel parallelepipedo simbolo del progresso era
in realtà un subdolo "Cavallo di Troia" al quale ingenuamente si spalancavano le
porte. E tutta la famiglia si sedette al suo cospetto. In religioso silenzio.
E dopo cinquant'anni penso di poter affermare che abbiamo la televisione che ci
meritiamo perché il suo schermo altro non è se non lo specchio sul quale si
riflettono gli italici andazzi. C'è chi sostiene che la tivù sia condizionata
dall'audience, un ragionamento che tradotto in soldoni vorrebbe dire che se i
programmi sono scemi è perché la gente vuole i programmi scemi. Ma non credo che
la gente sia scema. La gente, in realtà, mangia di tutto e sono certo che se la
tivù avesse il coraggio di cambiare rotta ci troveremmo fra qualche anno con i
programmi seri in prima serata e le "carrambe", "le poste per te" e le "lotterie
di capodanno" alle due di notte. Dunque è il "cuoco" che ha paura di cambiar
menù.
Ma non voglio iniziare l'anno mettendomi addosso i panni del saccente che si
diverte a sparare apologhi. Auguriamo alla nostra tivù un buon compleanno, come
se fosse una vecchia zia che continuiamo a tenere in casa perché dopo tutto ci
ha regalato dei momenti indimenticabili. Ricordate la lunga notte dello sbarco
sulla Luna? E quel fascino tutto bianco e nero come la Luna?
Ecco, se proprio lo volete sapere, a me piaceva di più quella televisione senza
colore. Adesso invece hanno la mania di colorare tutto, anche i vecchi film.
Vedere Stanlio e Ollio a colori è semplicemente stomachevole e Humphrey Bogart
con il doppio petto blu sembra un funzionario del ministero. Bianco e nero non
significa "grigio", ma significa dare spazio ai colori che sono dentro di noi.
Non saprei esattamente cos'abbia inteso dire con questa frase a effetto. Mi è
venuta così e così ve la passo.
E ora metto punto perché alla tivù sta per iniziare il programma…
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del
Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con
articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il
Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della
sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema",
"Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova
Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi,
considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna,
Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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