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Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

27 Gennaio 2002

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Manca ancora un po' ma già si comincia a parlare del Festival di Sanremo. Intanto, se proprio lo volete sapere, vi dirò che sono anni che non seguo in tivù il festival della canzone italiana, ma non crediate che sia uno di quegli intellettuali con la puzza sotto il naso. Vi garantisco che non è affatto così e che seguo in tivù cose ben più orrende del festival. Però questo festival tanto osannato da anni proprio non mi va giù. Mi dà l'impressione di un grande corpo ormai imbalsamato al quale a tutti i costi si voglia restituire vita e credibilità. Purtroppo il festival di Sanremo è morto e la gente non lo sa o forse finge di non accorgersene. Ma credetemi, è proprio così. E' morto il giorno in cui la gente, il giorno dopo la manifestazione, non si è messa a fischiettare il motivo vincitore.
Nel 1958 frequentavo la seconda liceo (scientifico) e dopo avere assistito alla vittoria di Domenico Modugno con "Nel blu dipinto di blu" (alias "Volare") il giorno dopo, mentre correvo a scuola, cantavo allegramente: «volare oh oh, cantare oh oh oh oh, nel blu dipinto di blu, felice di stare lassù...» E la stessa cosa si sarebbe ripetuta l'anno dopo con "Piove" (alias "Ciao ciao bambina")...
Quelli, ragazzi, erano festival, quando ancora mezza Italia se lo ascoltava alla radio perché la televisione era roba da signori e quando la gente badava più alla melodia che non a tutte le scenografie che vanno oggi di moda per catturare l'attenzione dello spettatore.
Si dice che c'è un tempo per ogni cosa e pertanto anche il Festival ha avuto il suo tempo e dunque ha fatto il suo tempo. E visto che siamo in tema di festival vi passo una considerazione che non ho sentito fare mai da nessuno e che mi scappò detta in un articolo che scrissi anni e anni fa commentando Sanremo. La considerazione riguarda "Nel blu dipinto di blu", una canzone che fu veramente una rivoluzione e nel cui testo per la prima volta non compare la parola amore che fa rima con cuore. Cominciamo con la prima edizione del 1951 vinta da "Grazie dei fiori", nel cui testo compare tre volte amore e una volta cuor. Andiamo avanti e consideriamo le canzoni vincitrici delle edizioni successive: "Vola, colomba"...(amor, 1), Viale d'autunno" (amor 3, cuore 2), "Tutte le mamme" (amor 3, cuor 2), "Buongiorno tristezza" (amore 3, cuore 3), "Aprite le finestre" (amor 3, cuor 1), "Corde della mia chitarra" (cuore, 1).
Poi arriva Modugno con una canzone dove cuore e amore non sono citati nemmeno una volta. Si volta veramente pagina e quella canzonetta è il simbolo di una rivoluzione canora che lascierà il segno. Volare! Volare! diventa l'inno degli italiani che voleranno davvero dentro al boom con la Seicento, con la televisione, col frigorifero, con le prime vacanze di massa... Tutto questo, però, è lettura troppo facile e immediata e allora gli intellettuali si sono messi a scavare nel profondo per ricercare altre motivazioni nelle pieghe inconsce dei comportamenti umani e così qualcuno, a posteriori, è andato a scomodare perfino Freud ricordando che il "volare" potrebbe essere identificato con uno dei simboli più espliciti della sessualità. Ma state pur certi che in quel lontano 1958 si cantava Modugno senza pensare assolutamente a Freud. Se mai qualcuno particolarmente acculturato avrà potuto pensare a "Le coq rouge" di Marc Chagall, un quadro che rappresentava un omino che volava in mezzo al blu e che, così racconta la leggenda, avrebbe ispirato Domenico Modugno e Franco Migliacci.
Poi il Festival si trascinò fino alle soglie del Sessantotto per giungere a quel tristissimo gennaio del 1967 quando Luigi Tenco con un colpo di pistola intese, come scrisse Salvatore Quasimodo, «colpire a sangue il sonno mentale dell'italiano medio». E, ironia della sorte, proprio nell'anno in cui il festival stava perdendo tutte le sue ingenuità, le giurie portano alla vittoria una canzone il cui titolo, Non pensare a me, sembrava voler rimuovere il tragico gesto di un giovane cantautore che aveva portato fra i fiori sanremesi la sua struggente "Ciao amore ciao" con l'intenzione di dire qualcosa di nuovo.
Per la verità, i cantautori ci avevano provato in massa nelle edizione del 1961, ma le orecchie degli italiani medi non erano ancora pronte per accogliere certi messaggi, tant'è che quell'anno fu premiata "Al di là", cantata dall'italianissimo e melodicissimo Luciano Tajoli.
Eppure c'era qualcosa che accomunava "Non pensare a me" e "Ciao amore ciao".
Entrambe le canzoni, infatti, si aprivano con un richiamo alla strada. «Non pensare a me, continua pure la tua strada...». Quella di Tenco, invece, è «la solita strada bianca come il sale» dalla quale si dipanano i tentacoli di «mille strade grigie come il fumo» sulle quali si cammina, dopo aver detto «addio al cortile» per «andarsene sognando».
Faceva freddo, quel gennaio ormai lontano. E noi ragazzi, con dentro alle tasche i sogni ormai spenti di un'Italietta che stava consumando gli ultimi spiccioli del boom, forse senza saperlo, ci ritrovammo adulti.

Franco Gàbici

 

I riferimenti freudiani di "Volare" sono tratti da G.Borgna, «La grande evasione. Storia del Festival di Sanremo», Roma, Savelli, 1980, pp. 58-60.

 

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996).

 

 

 

 

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