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Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

31 Marzo 2002

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Da sempre il mese di aprile richiama il "dolce dormire" e quella corrispondenza biunivoca inventata dai contadini che associa ad ogni "goccia" nientemeno che un "barile". Aprile richiama i tepori, i primi profumi della primavera, le lucertole aggrappate ai muri, i gatti che sonnecchiano al sole. Un mese carino, dunque, non c'è che dire. Poi invece ti capita di sfogliare The Waste Land (La terra desolata) di Thomas Stearns Eliot e il primo verso ti stende come un uppercut con questa sentenza lapidaria: «Aprile è il più crudele dei mesi». Sì, dice proprio così: April is the cruellest month (la traduzione è di Mario Praz) e ti toglie la poesia della primavera inneggiando invece all'inverno appena passato. Aprile, continua Eliot,

genera
illà dalla morta terra, mescola
ricordo e desiderio, stimola
le sopite radici con la pioggia primaverile.
L'nverno ci tenne caldi, coprendo
la terra di neve obliosa, nutrendo
grama vita con tuberi secchi.

Sfogliamo queste pagine e andiamo oltreUna partita a scacchi per entrare ne Il sermone del fuoco , con le ultime dita delle foglie [che] s 'aggrappano e affondano nell 'umida riva dove

un topo s'insinuò pian piano tra la vegetazione
strascicando il suo ventre viscoso sulla riva...

I topi.
Rtststr! Stridio di ghiaia.... Un obeso sorcio grigio trotterellava lungo un lato della cripta smuovendo ghiaia.
È il topo di Joyce che irrompe nella scena del funerale, mica un topolino dei fumetti, ma il "topo-vampiro" che, secondo Stuart Gilbert, «serve di collegamento fra il motivo del cimitero e quello dei Lestrigoni (famelici)». Nell'Ulysses un topo non può essere banale come Speedy Gonzales, nato negli anni grassi del boom, quando la gente mostrava poche propensioni alla meditazione o alle conversazioni. Ma per Mickey Mouse (il disneyiano Topolino) il discorso è diverso e se proprio vogliamo spaccare il topo in quattro potremmo leggere intenzioni ben più profonde e considerare Topolino nientemeno che figlio della Grande Depressione e farne un eroe o un emblema. Ha scritto Francesco Santoianni che «questo topo, che si buttava a testa bassa nelle sue imprese sfidando le avversità che gli piovevano addosso, forniva un esempio da seguire in un periodo difficile della storia americana. Eroe disinteressato e idealista, Mickey Mouse fu una sferzata di vitalità per milioni di americani che nel crack del 1929 avevano visto incrinarsi tutti i loro sogni e le promesse che il ruggente capitalismo aveva fatto loro: essi trovarono in questo personaggio gli stessi ideali e il dinamismo che avrebbero caratterizzato la ripresa dell'era roosveltiana».
I topi ebbero l'onore della cronaca letteraria fin dai tempi antichissimi, quando furono promossi protagonisti della Batracomiomachia, poemetto di autore greco anonimo (nell'antichità, però, fu attribuito ad Omero) dove viene narrata la fantascientifica battaglia fra Topi e Rane, sotto lo sguardo ponziopilatesco degli Dei che su consiglio di Atena (arrabbiata coi topi perché le avevano rosicchiato un peplo e arrabbiata pure con le rane perché il loro gracidio le aveva impedito di dormire) si erano decisi di non parteggiare per nessuno.
La battaglia è incerta fino all'ultimo e sarebbe stata vinta dai Topi se Zeus, mosso da pietà, non avesse mandato in campo i Granchi, che con le loro chele fecero strage di sorci costringendoli alla fuga.
Il nostro Leopardi, tra l'altro, non solo tradusse per ben tre volte questo poemetto (altri autori, però, si erano cimentati su questo argomento), ma ne scrisse anche la continuazione, quei Paralipomeni della Batracomiomachia le cui ultime tre o quattro ottave sembra siano state dettate dal letto di morte all'amico Ranieri. Le intenzioni di Leopardi erano satiriche, anche se non c'è accordo sulla lettura emblematica del poema, che potrebbe essere comunque una messa in burla della rivoluzione napoletana del 1820 con conseguente invasione degli austriaci. Vincenzo Gioberti lo considerò un "libro terribile" pervaso da "un'ironia amara, che squarcia il cuore, ma che è giustissima".
E poi ci sono i topi che invadono la città di Orano in Algeria secondo la descrizione di Albert Camus (La Peste, 1947). Compaiono sorci anche nel tragico Uomini e topi (Of Mice and Men, 1937) di John Steinbeck, con l'intelligente George Milton e il "minorato" Lennie Small che ha la mania di accarezzare topi.
Robert Burns, poeta scozzese, aveva scritto nel 1785 una poesia dal titolo A un topo a cui avevo distrutto un nido con l 'aratro. Il vomere che manda all'aria la fatica del topo assurgeva a tragedia universale:
Sono veramente dolente che il dominio dell 'uomo
Abbia spezzato l'unione sociale della natura....

perché, dice il poeta, uomini e topi sono accomunati dallo stesso destino di esseri mortali.
E poi c'è la storia del pifferaio... Ma ora basta. Come Lennie anch'io accarezzo un topo. Il mio non ha baffi, ma una lunga coda che si perde sul piano della scrivania. Mi basta un clic e tutti i topi se ne volano fuori dalla finestra nel buio della notte.

Franco Gàbici

 

Le citazioni iniziali sono tratte da T.S.Eliot, La terra desolata. Frammento di un agone. Marcia trionfale, Torino, Einaudi, 1983.
La citazione di Gilbert sta in S.Gilbert, L 'Ulisse di James Joyce, in Introduzione a Joyce, Milano, Mondadori, 1967, p. 757.
Le riflessioni sui topi provengono da Francesco Santoianni, Topi, Firenze, Giunti, 1993, p. 27.
La lettura giobertiana del poemetto di Leopardi è in V.Gioberti, Il Gesuita Moderno, Losanna, Bonamici, 1846-1847, III, p.484.

 

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996).

 

 

 

 

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