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Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

24 Febbraio 2002

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Alcune bollicine fa ho affrontato il tema dell'inquinamento luminoso e questa volta devo ritornare sull'argomento per via di una notizia che ho letto su "Tuttoscienze", l'inserto settimanale de "La Stampa" che ogni settimana confeziona il mio amico Piero Bianucci per tenere sempre accesa la fiammella dell'interesse verso la cultura scientifica. E proprio sulla prima pagina di "Tuttoscienze" ho letto pochi giorni fa una notizia che mi ha lasciato senza fiato e che dimostra come certa gente non capisca proprio niente di niente in fatto di ambiente. La notizia è questa: a qualcuno è venuta l'idea di illuminare i mitici "faraglioni" di Capri con la luce artificiale. Ragazzi, siamo proprio alla follia!
I "faraglioni" appartengono alla natura e non possono essere infilzati con taglienti lame di luci artificiali. Ricordate la canzone "Luna Caprese" che lo straordinario Peppino di Capri lanciò il 19 luglio 1960 su disco Carisch VCA 26118 (scusatemi, ma io amo alla follia questo cantante, che rappresenta la colonna sonora dei miei anni liceali)?
La canzone, che risale al 1953, fu musicata da L.Ricciardi su versi di Augusto Cesareo (1905-1961). Cesareo si guadagnava il lesso come giornalista e dopo aver tenuto su "Roma" una rubrica che firmava con lo pseudonimo Pickwick e che gli dette una certa notorietà, passò al "Mattino" di Napoli come cronista mondano. Fu anche direttore dell'Ente turismo di Napoli e si dilettava come "paroliere" di canzonette in dialetto napoletano. Peppino, che indossava le sue sgargiantissime giacche di lamé luccicanti sotto i riflettori dei night, ci trasmetteva, accompagnato dai suoi "Rockers", le malie del golfo di Napoli cantando: "na fascia 'argiento sott'e Faragliune, e nu mistero 'int'a'sta notte chiara".
Bene. Con la luce artificiale che incombe, un eventuale remake di "Luna caprese" potrebbe contenere questi versi: "na fascia 'o mille watt su i Faragliuni..." e, naturalmente, addio al "mistero" e alla sua brava "notte chiara".
Verrebbe in questo modo spodestata la poesia del plenilunio, con buona pace dei futuristi ai quali, come ricorderete, non andava a genio ­ chissà poi perché ­ il chiaro di luna.
Mettendo i watt dell'Enel al posto dell'amica Luna si avvierebbe una operazione assurda e senza senso e se questa troverà attuazione (come purtroppo succede quasi sempre per le idee balorde) ciò significa che siamo dentro fino al collo ad un mondo dove tutto deve essere artefatto e artificiale. O, per usare un termine che ora va di moda, "virtuale".
Oggi tutto è "virtuale". Anche il buon senso. Il termine fu usato per la prima volta da Dante. Nel Purgatorio, ad esempio, Beatrice rimbrotta il poeta perché, nonostante tutte le virtù che aveva avuto in dono grazie all'"ovra de le rote magne", non era riuscito a compiere cose ancora migliori di quante non ne avesse combinate fino allora. Dice Beatrice che "questi (cioè Dante) fu tal ne la sua vita nova (cioè in gioventù) virtüalmente (cioè in potenza)". Poveraccio, dopo la Commedia cosa si pretendeva da lui? Mah, Beatrice è proprio incontentabile. Poi l'aggettivo "virtüalmente" appare anche in un altro passo della cantica e non aggiungo altro perché qui siamo dentro ad una Bollicina e mica in un trattato di letteratura!
Quello che volevo dirvi, però, è che "virtuale" è termine anche fisico e che in "meccanica razionale" si studia il "principio dei lavori virtuali", formulato per la prima volta da Giuseppe Bernoulli nel 1717. E quando in meccanica si parla di "spostamento virtuale" si fa riferimento ad uno spostamento che non c'è ma che potrebbe invece verificarsi. Gli spostamenti "virtuali" sono dunque passaggi "ideali".
Ancora in fisica, in particolare nell'ottica, si introdusse il concetto di "fuoco virtuale", a dimostrazione che il termine è di casa.
All'inizio degli anni Novanta del secolo scorso, invece, con il termine "realtà virtuale" si intese definire la realtà fasulla costruita dall'elettronica. E oggi se ne fa un uso inverecondo unitamente ai vari "al limite", "nella misura in cui" e "quant'altro".
Mi rendo conto di essere uscito parecchio dal seminato perché, partendo dai "watt" (che mi auguro siano solamente "virtuali") sparati sui Faraglioni, sono approdato al "principio dei lavori virtuali", ma del resto quando scrivo non ho l'incubo della matita blu di qualche pedante professore che mi possa redarguire con la locuzione "questo è fuori tema". Dentro alle "bollicine", infatti, ci sta di tutto, perché queste mie entità "virtuali", a differenza delle monadi di Leibniz (che, per definizione, non hanno né porte né finestre), sono invece dotate di infissi sempre aperti. Ragion per cui vi entra di tutto.
E anche se sigillassi tutto, dalle fessure entrerebbe comunque l'aria sottile dei ricordi, che mi porta indietro ad anni lontani, quando la notte alzavi gli occhi al cielo e vedevi le stelle, tantissime stelle, mentre ora il cielo è stato derubato di tutte le sue bellezze. Per poter vedere le stelle non ci resta che sbattere la testa contro il muro. Il ché, direbbe Giovannino Guareschi, "è bello e istruttivo".

Franco Gàbici

 

  Le citazioni dantesche fanno riferimento ai canti del Purgatorio: XXV (canto dei lussuriosi, v.96) e XXX (canto della scomparsa di Virgilio e dell'apparizione di Beatrice, v.116).

 

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996).

 

 

 

 

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