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Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

17 Febbraio 2002

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Ragazzi, Papini non scherzava proprio e state pur certi che se uno non gli piaceva, andava giù di brutto con critiche feroci. Era famoso per le sue stroncature e non guardava in faccia a nessuno. Quando, ad esempio, uscì la raccolta morettiana "Poesie scritte col lapis", lui aggiunse acido "e da leggere con la gomma!". Sulla copertina dell'edizione morettiana degli Oscar, invece, a dimostrazione come in letteratura si possa dire tutto e il contrario di tutto, Geno Pampaloni scriveva: "poesie fortemente interrogative, che pongono subito le domande finali della destinazione dell'uomo". Terribile, comunque, Papini. Eppure Marino Moretti non mi sembra poi tanto male, o forse è solamente lo spirito di campanile che mi induce questo giudizio. Il Moretti, infatti, era di Cesenatico (e dunque romagnolo come il sottoscritto) e gli ultimi anni della sua vita li ha trascorsi proprio nella sua casa in riva al porto canale, con la sorella Ines e una tartaruga di cui però non ricordo il nome (Cunegonda, mi sembra). Moretti era uno di quei nomi che si leggeva di tanto in tanto in calce a qualche poesia nei "sussidiari" della scuola elementare, insieme ad una combriccola di poeti che noi bambini, per il fatto stesso che si trovassero sui libri, consideravamo mostri sacri e pertanto già morti e sepolti. Del resto nello stesso equivoco cadde anche la maestra di una delle nipotine di Diego Valeri, come racconta un gustoso aneddoto che ho trovato in Diario del Novecento e che vi invito ad andarlo a leggere cliccando qui.
Marino e compagnia bella, invece, erano vivi e vegeti alla faccia di quanti li volevano già collocati in quella zona misteriosa dello spazio-tempo unde negant redire quemquam, che è verso tratto da Catullo e precisamente dal carme del passerotto di Lesbia per ricordare il mistero dell'al di là. Ah, Catullo Gaio Valerio. Evidentemente chi si lasciò scappare carmina non dant panem non aveva presente la villa del poeta sul lago di Garda a Sirmione, ma Catullo è forse un caso particolare perché di norma lettere e filosofia non hanno mai ingrassato nessuno, come del resto conferma un passo di Petronio nel quale un poeta giustifica il suo abbigliamento, diciamo non proprio da boutique, con il verso amor ingenii neminem umquam divitem fecit (83,9).
Ma ora basta con il latino e torniamo a Moretti, che io ho avuto il piacere di andare a trovare pochi giorni prima della sua dipartita all'ospedale di Ravenna dove era stato ricoverato. Era una calda giornata d'estate con le cicale che gaddianamente frinivano a tutto vapore nella bassa ravennate tritando voracemente il tempo e insieme all'amico Walter Della Monica (prima o poi parlerò anche di lui perché fu l'inventore di quei "trebbi poetici" che tennero banco in Italia e in Europa negli anni Cinquanta) entrai nella cameretta linda e pulita di Marino, che stava seduto su una sedia accarezzando il "Meridiano" di Mondadori appena uscito e a lui dedicato. Pareva un bambino che accarezzava il giocattolo che aspettava da tempo, ma negli occhi di Marino c'era qualcosa che strideva con l'esuberanza dell'estate, che oltre le finestre si presentava con un ampio sbadiglio di luce e di sole. C'era qualcosa che strideva perché in quella cameretta avvertivi il forte senso della fine e senza accorgertene accumulavi un'esperienza che secondo Rainer Maria Rilke sarebbe indispensabile per poter scrivere anche un solo verso (ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate).
E mentre osservavo il poeta Marino pensavo con tenerezza alla mia infanzia trascorsa sui banchi della scuola elementare con addosso il grembiulino a quadrettini bianchi e azzurri mentre chino sul banco leggevo poesie dai significati misteriosi e di certo non avrei mai pensato che avanti negli anni avrei visto uno di quei poeti che era oggetto delle nostre letture in una malinconica cameretta d'ospedale. Di Moretti, a quei tempi, avevo memorizzato solamente il nome, ma di versi nemmeno uno. Mi si piantarono in testa, invece, alcuni versi di Aldo Palazzeschi perché parlavano di un Rio che si chiamava Bo e di un piccolo paese che aveva una stella che si era innamorata del "vigile" cipresso che stava a guardia del ruscello. Ma soprattutto restarono impressi i gemiti di quella sua fontana malata con quel clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, clocchete, chchch che avrebbe impietosito anche il più navigato degli idraulici, oh sì se stava male quella povera fontana, aveva la tisi.
Moretti morì il 9 luglio del 1979, a pochi passi dal suo novantaquattresimo compleanno. Era nato il 18 luglio 1885 e in "Diario senza le date" aveva dedicato una poesia a luglio (Il mio mese) ricordando proprio un suo compleanno. Ecco luglio. Il mio mese./Niente di ciò ch'io voglio./ Un compleanno spoglio,/ goffo, senza difese... e via verso la fine che si chiude con questi interrogativi: Diciotto luglio: fiato/ grosso e cervello storto./ O sono appena nato?/ O sono appena morto?
Moretti e quell'ormai lontanissimo giorno d'estate... Non andate mai a trovare i poeti quando sono in una cameretta d'ospedale. Non è piacevole veder morire l'infanzia in un giorno d'estate.

Franco Gàbici

 

  La citazione di Rilke è tratta da «I quaderni di Malte Laurids Brigge», Milano, Garzanti, 1974, p.14.

 

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996).

 

 

 

 

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