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Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

10 Marzo 2002

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È ormai primavera e sentite cosa scriveva quello scapigliato di Iginio Ugo Tarchetti a proposito della "madre terra" riscaldata dal sole: «A primavera, quando il sole la dardeggia de' suoi raggi; in quel periodo di febbre, di ardenze, di fecondità, quando dal suo seno pieno di amore erompono le famiglie degli insetti e delle erbe, quando ella sorride d'un sorriso pieno d'incanti e di fiori, io ho sentito spesso con una specie di furore il desiderio di rientrare nel suo seno; io mi sono proteso per abbracciarla ».
Per Guido Gozzano la primavera non si identifica con «la donna botticelliana dell'Allegoria», ma con un qualcosa di meno famoso e sicuramente di più primaverile. E cosa c'è di più primaverile di una farfalla? Non è, però, una farfalla qualsiasi, ma un lepidottero con una carta d'identità ben precisa: l'Antòcari, che il poeta vede volare mentre il cuore gli sobbalza nella attesa della primavera. Sì, perché questa farfalla è definita «messaggera della primavera »: La Primavera non è giunta ancora, ma l'Antòcari vola e il cuore esulta.
E quel leggero battito d'ali gli evoca l'antico ricordo delle primavere della sua adolescenza. Anch'io, se permettete, mi metto sulla scia di Gozzano, e sul verde prato della memoria vado alla ricerca delle primavere perdute, quando i campi, gli orti e i cortili erano ricchi della discreta presenza delle farfalle. Ne ricordo una infinita varietà, dalle cavolaie alle vanesse, dai macaoni a quelle notturne... Era un piacere osservarle, mentre si mescolavano ai colori dei petali dei fiori e ai profumi dell'aria. Oggi credo siano rimaste solamente le cavolaie a rappresentare la categoria, perché tutte le altre consorelle sono ingiustamente cadute sul campo, distrutte dal progresso, dai pesticidi e da tutte le fetenzie che i nuovi untori spargono senza misericordia un po' dappertutto.
Il poeta ricorda anche che nella storia della terra i fiori comparvero prima degli insetti e immagina con questi versi il loro adattamento all'ambiente. Alla domanda: Insetti e fiori: mimi scaltri, come / v'accordaste nei tempi delle origini?, il poeta fornisce questa spiegazione:fu l'anemone / che alla farfalla ragionò così: / Sorella senza stelo, come sei / fragile d'ali e debole di volo! / Salvati dal ramarro e dalla passera: / rivestiti di me, tingiti in verde / ai lati, in bianco a mezzo, in fulvo a sommo, / e con l'antenne simula i pistilli! . Le farfalle, dunque, non sono altro che fiori camuffati.
È sorprendente che Guido Gozzano, definito "crepuscolare", abbia scritto delle Epistole entomologiche, dove il poeta guarda la natura e il mondo con l'occhio indagatore dello scienziato. Giovanni Pascoli, che pure ha sempre fatto l'occhiolino alla scienza, concludeva la sua Quercia caduta con il pianto della capinera che non avrebbe più trovato il suo nido, mentre Gozzano offre al lettore precise coordinate sull'età di un gigantesco rovere caduto che se ne sta a radici all'aria mostrando in cerchi, nelle sue midolla / i centonovant 'anni che ha vissuto . Le querce hanno sempre interessato i poeti e Giovanni Camerana non ha badato a versi dedicando a questo albero niente meno che tre poesie.
La vita di Gozzano fu spenta a soli trentatré anni dalla tisi e le giornate della sua gioventù non dovettero essere particolarmente allegre. Nonostante tutto cercava di consolarsi con la scienza e in una poesia ringrazia il mitico Giulio Verne (che illudesti molti giorni grigi / della nostra pensosa adolescenza) dei suoi sogni avventurosi: quanti sogni avventurosi / sognammo sulle trame dei tuoi libri! / La Terra il Mare il Cielo l'Universo / per te, con te, poeta dei prodigi, / varcammo in sogno oltre la Scienza.
Si sentiva leggero e fatuo come una farfalla che volava sul mondo e oltre le cose del mondo. Giovannino Guareschi usò l'allegoria «più leggero dell'ombra di una farfalla» per definire lo stato d'animo di un suo personaggio e gli ecologisti hanno scelto queste graziose creature per coniare il cosiddetto "effetto farfalla" (butterfly effect) e il conseguente paradosso che ne deriva. Edward Lorenz, nel dicembre del 1979, aveva presentato una relazione alla "American Association for the Advancement of Science" con una ipotesi incredibile: il battito d'ali di una farfalla in Brasile può causare una tromba d'aria nel Texas. Certo, non è facile capire queste cose, ma il nostro mondo è combinato per davvero in questo modo, nel senso che anche la nostra più piccola ed insignificante azione può avere delle ripercussioni o delle ricadute anche molto lontano da noi. È, in altre parole, l'effetto della globalizzazione, che ci lega tutti quanti e ci fa sentire inseriti in reticoli nei quali le parti sono tutte collegate fra loro. Uniti nel bene e nel male, nella gioia e nella colpa. E pure Gadda aveva inventato una sorta di globalizzazione della colpa mettendo in bocca a Gonzalo Pirobutirro questa ammissione disperata: «Dacché siamo colpevoli d'ogni cosa. Abbiamo noi la colpa di tutto...qualunque cosa succeda...anche a Tokio...a Singapore...la colpa è nostra».

Franco Gàbici

 

La messaggera marzolina di Guido Gozzano è tratta da «Lettere entomologiche».
La quercia di Pascoli è in «Primi poemetti», mentre Il gigantesco rovere di Gozzano è in «La via del rifugio».
Le considerazioni di Gadda provengono da «La cognizione del dolore», Torino, Einaudi, 1987, po.200-201.
  L'effetto farfalla si deve, in realtà, a Ray Bradbury, che lo propose cinquant'anni fa nel racconto «A Sound of Thunder» (Editori Riuniti, 1985).

 

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996).

 

 

 

 

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