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Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

24 Marzo 2002

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Ho recentemente seguito una trasmissione domenicale di Gianfranco Ravasi, coltissimo sacerdote e giornalista, che ha ricordato il ben noto episodio di San Tommaso e della sua incredulità divenuta proverbiale. Come è noto, San Tommaso dichiarò che avrebbe creduto solamente se avesse toccato con mano le piaghe del Cristo risorto. Una stranezza del santo? Macché, spiega Vasco Ronchi, storico dell'ottica, perché tutto rientra nei canoni del tempo, che aveva partorito una filosofia proprio contro il senso della vista.
Vedere va bene, ma tutto quello che si vede deve essere comunque subordinato al tatto, perché solamente il tatto può imprimere sui fatti il marchio della veridicità. Tutto il contrario del «guardare ma non toccare» che veniva gridato ai ragazzi come severo ammonimento. E qui non si tratta di filosofia, ma semplicemente di un consiglio pratico per evitare che la curiosità dei ragazzi nei confronti di qualcosa di fragile potesse causare malestri. Il «guardare ma non toccare» stava dunque agli antipodi di quel Non potest fieri scientia per visum solum, una sentenza tremenda che, scrive Ronchi, «ha condizionato lo sviluppo del pensiero scientifico in tutto il periodo di duemila anni a cui ci riferiamo». E questa sfiducia nella vista, conclude Ronchi, ha causato un vero e proprio «accecamento» dell'umanità scientifica.
Ma anche senza scomodare i santi si possono trovare altri esempi di questo ostracismo alla vista. Leonardo da Vinci, ad esempio, scrive nel suo trattato Della Pittura che «i maestri non si fidano del giudizio dell'occhio, perché sempre inganna» e conclude con una considerazione che tradotta in soldoni significa che credere alla vista è proprio da ignoranti.
La situazione non migliorò quando alla fine del Duecento alcuni artigiani scoprirono che utilizzando alcuni dischetti di vetro le persone anziane potevano vedere come i giovani. Una bella scoperta, non c'è che dire, ma nemmeno di fronte a questa evidenza la scienza modificò il proprio giudizio nei confronti della vista. Niente da fare. Scetticismo completo. Del resto anche il termine stesso con cui venivano chiamati questi dischetti («lenti») stava a indicare una origine che non aveva niente a che vedere con il mondo scientifico e i laboratori. Quei dischetti trasparenti, infatti, venivano chiamati «lenti di vetro» data la loro somiglianza alle «lenticchie» che si vendevano a sacchi nelle umilissime botteghe dei verdurai. Si fece allora d'ogni lente un fascio e si impresse su questi «ordigni fallaci» lo stigma del disprezzo.
Poi le cose, per fortuna, cambiarono e le lenti cominciarono a diffondersi un po' dovunque tant'è che su Il Conciliatore (il giornale che ognuno di noi ha imparato a conoscere sui banchi di scuola quando si studiavano le vicende del Risorgimento) apparve una lettera con la quale un lettore chiedeva spiegazioni su questi nuovi attrezzi unitamente ad alcune considerazioni.
Un non ben identificato lettore, che dichiara di avere cinquantasette anni, scrive ricordando come ai tempi della sua gioventù fossero pochissimi i «nasi armati di occhiali» mentre adesso una terza parte dei nasi «serve da sgabello alla varia ed elegante generazione degli occhiali moderni». E dal momento che, secondo l'opinione del lettore, gli occhiali sarebbero lo status symbol di quanti hanno l'aria «d'illuminare il mondo», si chiede se il moltiplicarsi degli occhiali non sia per caso in proporzione al «numero degli ammaestratori del mondo».
La risposta è anonima (anche se qualcuno sarebbe propenso ad attribuirla niente meno che a Silvio Pellico) e spiega al lettore che «il numero dei mal veggenti» è purtroppo cresciuto negli ultimi tempi e che è da considerare «una quistione un po' involuta se col maggior uso di questi vetri legati in oro, in argento o in tartaruga, sia pure cresciuto il numero dei grandi e de' piccoli Dottori».
Una cosa, però, è certa, ed è questa: anche gli occhi dell'intelletto soggiacciono più che mai ai difetti, proprio come quelli del corpo. Vi sono, infatti, «presbiti mentali» che vedono i loro meriti mille miglia lontani e dei «miopi» che invece non riescono mai a vedere i meriti degli altri. Il Conciliatore si premura di avvertire il lettore che le ultime considerazioni non sono sue, ma di un suo (probabilmente di Pellico) filosofo amico, celebre per la sua grande sincerità e per questo «sinceramente detestato» nella grande città di Olinam.
Per un attimo, anch'io mi sono chiesto dove si potesse trovare questa città dal nome stranissimo, poi mi sono accorto che quel nome un po' così è in realtà l'anagramma di Milano. Evidentemente anche i nostri patrioti si dilettavano di enigmistica, anzi a volte facevano ricorso a quest'arte per lanciar messaggi. Ricordate il grido «Evviva Verdi!», un misto di passione musicale e di slancio patriottico? VERDI, infatti, è l'acrostico di Vittorio Emanuele Re D'Italia. Me lo insegnò la maestra Teresa Falcone in quell'inverno lontano della grande neve (1953), quando con la testa piena di sogni e di capelli neri stavo preparando l'esame di ammissione alla scuola media. p align="right"> Franco Gàbici

 

Le citazioni sno tratte da:
Vasco Ronchi, «La nuova ricostruzione della invenzione del canocchiale in Nel quarto centenario della nascita di Galileo Galilei», Milano, Vita e Pensiero, [1966], pp. 190-206.
Il Conciliatore. N.22 [SP(?), Problema sugli occhiali], num.22. Domenica 15 di novembre 1818.

 

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996).

 

 

 

 

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