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Charles se ne è andato segnando l'ultimo gol alla vita
Il grande John, da oggi,
giocherà gioioso un’altra partita
Non so se
conoscete Rod McKuen. Credo di averlo già ricordato in qualche
“bollicina” e dico “credo” perché dopo aver partorito più di cento
bollicine non potete di certo avere la pretesa che io ricordi tutti gli
argomenti che ho trattato e i personaggi che ho citato per cui non è da
escludere che qualche volta possa anche ripetermi, ma del resto
iucunde repetita iuvant sentenziavano i latini e sentenziavano bene
se è vero che ancora oggi ricordiamo le loro massime, anzi ce ne
facciamo un vanto nel citarle. Dunque, Rod McKuen è uno scrittore e
paroliere che intorno alla fine degli anni Sessanta fece furore con un
disco che si intitolava “Il mare” dentro al quale (dentro al disco
intendo dire) erano state registrate alcune sue poesie lette da Arnoldo
Foà: se cito McKuen e il suo disco è perché dentro ci stava una poesia
che si intitolava “Ti piace la pioggia?” e quella poesia mi offre
l’incipit per la mia “bollicina” settimanale perché sono giorni e giorni
che piove e che piove e che piove e non ne posso proprio più. Certo,
avrei potuto dare il via alla mia chiacchierata limitandomi
semplicemente a ricordare questo accidente meteorologico, ma ho
preferito iniziare in questo modo perché quella poesia attacca con
questi versi: “Ti piace la pioggia? O ti intristisce?” e dunque sembrano
fatti apposta per queste giornate e mentre vedo la pioggia rigare i
vetri, render grigi i tronchi degli alberi penso che, nonostante le
malinconie che induce, la pioggia è stata oggetto di riflessioni
poetiche sia in versi che in musica, a cominciare da Domenico Modugno
che ricorda la pioggia che si mescola a secreti lacrimali sul bel
visino: “è pioggia o pianto, dimmi cos’è?”
Anche D’Annunzio non se la
cava niente male quando affronta il tema della pioggia nel pineto e
sembra che Modugno faccia il verso al poeta di Pescara, che verseggia:
“Piove su le tue ciglia nere sì che par che
tu pianga ma di piacere”. E la voce della pioggia cambia a seconda di
dove va a infrangersi: “La pioggia cade su la solitaria verdura con un
crepito che dura e il pino ha un suono; e il mirto altro suono, e il
ginepro altro ancora, stromenti diversi sotto innumerevoli dita”; le
gocce di pioggia potrebbero definirsi le dita delle nubi, le mille dita
delle nuvole che accarezzano la terra e mentre piove “non s’ode nessuna
voce del mare” perché tutta l’aria è piena del “crosciare” della
“argentea pioggia che monda”… Ma
ciò nulla toglie alla tristezza della pioggia che rende grigia ogni cosa.
E mentre fuori le nuvole nascondono l’azzurro e coprono il sorriso delle
stelle, io penso con tristezza al gigante buono John Charles che ci ha
lasciato, il mitico Charles della Juventus stellare degli anni Cinquanta
e Sessanta, era un vero mito e un esempio di sportivo serio ed onesto,
in tutta la sua carriera non fu mai ammonito e nemmeno espulso e credo
che pochissimi giocatori possano vantare un simile record, con Sivori e
Boniperti formò un irripetibile trio, grandissimo Charles campione di
signorilità.
E continua a piovere e il rumore della pioggia mi riporta a
pomeriggi lontani e mi sembra di avvertire ancora il sapore del vetro
della finestra sul quale alitavo tutte le mie smanie di sole, oltre i
vetri c’erano il cortile e i giochi e soprattutto quel pallone di cuoio
che mi era stato regalato per una promozione insieme alle scarpe coi
“tacchetti”. Ma quando pioveva si doveva stare in casa sennò poi ci
saremmo buscati un malanno; invece, i veri atleti correvano e giocavano
anche sotto la pioggia e uscivano dal campo tutti sporchi di fango ma
coperti di gloria come gli eroi di Omero e noi a sognare insieme a loro
dietro ai vetri della finestra che condensavano il nostro alito di
giovani che desideravano solamente il sole e l’azzurro per poter calzare
quelle scarpe coi “tacchetti”, rincorrere il pallone che rimbalzava qui
e là sul selciato sconnesso del cortile o sul campetto dell’oratorio
pelato come una zucca sul quale pareva fosse passato da poco lo
zoccolo del cavallo di Attila. Su quel campetto dei nostri anni beati
si proiettava l’ombra della grande basilica di Sant’Apollinare Nuovo che
aveva il cuore ricco di mosaici. Ricordo che la bandierina del calcio
d’angolo era proprio a ridosso dell’abside della antica basilica e
quando si calciava il “corner” ci si appoggiava inevitabilmente alla sua
pietra rossastra che la sera "scorbacchiava" dei colori del tramonto,
perché si giocava fino a sera, quando le rondini tornavano a garrire
attorno al campanile e la tela del cielo si faceva più turchina.
Ecco i ricordi che si affollano mentre sento fuori l’odore della pioggia, che
mi rende triste per la morte di Charles che se n’è andato segnando
l’ultimo gol alla vita e portandosi via per sempre il pallone della sua
esistenza terrena perché ormai non è più tempo di rimettere la palla al
centro. Il grande John, da oggi, giocherà gioioso un’altra partita.
Franco Gàbici
Simonelli Editore consiglia di leggere:
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Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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