n. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36
37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66
67 68 69 70 71 72
73
74
75
76
77
78
79
80
81
82
L'ultimo giorno di
scuola aveva un fascino tutto speciale, vissuto in una maniera - se volete -
un po’ crepuscolare, con la voglia dell’estate e delle vacanze, ma anche con
quella vaga malinconia che derivava dalla consapevolezza che si interrompeva,
ancorché temporaneamente, una piacevole consuetudine, una routine, un rito che
iniziava al mattino abbastanza presto, con il profumo di caffelatte che
riempiva la cucina, con il rumore del cucchiaio che la mano industriosa della
mamma sbatteva dentro alla tazza per “montare” albume e tuorlo, perché chi
studia deve nutrirsi bene, eravamo considerati esclusivamente animali da
studio, le vacche producevano latte, gli alberi davano frutti e noi ragazzi
dovevamo solamente studiare per la sicurezza del pezzo di carta, per la
“posizione” nella vita e per la tranquillità della pensione futura e l’ovetto
mattutino faceva parte di questo rito. Ricordo ancora il bianco dell’albume
che debordava dalla tazza e mia madre che vi gettava dentro il tuorlo che
veniva inghiottito da quella montagna di neve zuccherata, poi un goccetto di
marsala e noi eravamo bell’e pronti per affrontare la quotidiana fatica della
scuola, che poi fatica non lo era affatto, anzi era un piacere, il piacere
dello stare insieme ai compagni, il piacere di quella incoscienza che
accompagnava inevitabilmente quegli anni beati e oggi che le scuole chiudono i
battenti il cuore viene riempito da questa ondata blu di ricordi che si
infrange sugli scogli del presente e scaglia in alto tutta una spuma di
sentimenti che si mescola a questa giornata di sole che prelude all’estate.
L’estate era sinonimo
di giornate incredibilmente lunghe, con l’assordante concerto delle cicale che
copriva tutti i rumori ovattati della città immersa in interminabili ozi
meridiani, l’estate aveva l’acre odore della polvere del campetto dei
Salesiani che calpestavamo rincorrendo un pallone i cui rimbalzi non seguivano
di certo le normali leggi della “riflessione” per via della sua rotondità
insultata dalla applicazione di una quantità incredibile di “pezze” che lo
facevano andare qua e là, estate era la frescura che ti accoglieva quando alla
sera dopo cena si andava al cinema all’aperto sazi della giusta fatica del
gioco, ecco che cos’era l’estate, l’estate dell’infanzia, che col passar del
tempo assunse aspetti malandrini e pruriginosi. L’estate, scriveva Orio
Vergani, “è calata sulla città come un falco”, e la città (Vergani si
riferisce a Venezia, ma la considerazione si estende a tutte le città e calza
a pennello anche a Ravenna, che è città di mare, come Venezia) “è piena di
seni, di petti, di mammelle nelle magliette attillate, nelle camiciole
vastamente scollate. Come nessun altro, questo è il secolo, o almeno questa è
la generazione della mammella. L’estate fa fiorire Venezia di seni come un
frutteto”. Così scriveva Vergani nel 1954. Fosse vissuto in questi tempi
chissà cosa avrebbe scritto!
Chiudono le scuole e la polvere torna sui banchi in attesa dell’autunno. Le scuole chiudono i loro
portoni davanti al lungo sbadiglio dell’estate, con le giornate che si stirano
pigre come tanti gatti al sole, con le notti brevi e caldissime, coi pleniluni
e le stelle cadenti.
La sera è caldissima. La luna è al primo quarto e tramonterà poco dopo la mezzanotte. “Stasera non
mi va di stare solo – cantava Bruno Martino – con questa luna accesa per
metà…”. Bruno Martino, le atmosfere del night sotto le stelle, fra la resina
dei pini… e le giacche di lamè di Peppino di Capri che ha accompagnato gli
anni beati del tempo della scuola, con quella sua voce inconfondibile. “La tua
voce, dopo tutto, è la migliore del mondo: la sola che sembra uscire dal mio
guanciale e rientrarvi. È nuova ed è antica. Cantami una mezza ‘Canzone
appassiunata’ arrangiata da te. Così la mia scialba morte sarà di oggi e di
ieri, dondolante fra il 1961 e il 1920, una morte senza età…”. Così scriveva
Giuseppe Marotta ricordando Peppino, che in questa sera calda mi si è
affacciato sul davanzale della memoria, aperto sui ricordi di fine anno
scolastico.
Franco Gàbici
Orio Vergani (1898-1962) scrive le considerazioni su Venezia in “Misure del tempo” (a cura
di Nico Naldini), Milano, Baldini & Castoldi, 2003, p.274.
La citazione di Marotta è tratta dall’album “Napoli ieri. Napoli oggi” di Peppino di Capri
(Splash SPLL 701). Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
© Copyright by
Simonelli Editore
Vietato copiare o linkare senza autorizzazione
Any copy or link is forbidden without permission.
|