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di memoria, cultura e molto altro...




Rubrica ad aggiornamento settimanale


 

8 giugno 2003

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L'ultimo giorno di scuola aveva un fascino tutto speciale, vissuto in una maniera - se volete - un po’ crepuscolare, con la voglia dell’estate e delle vacanze, ma anche con quella vaga malinconia che derivava dalla consapevolezza che si interrompeva, ancorché temporaneamente, una piacevole consuetudine, una routine, un rito che iniziava al mattino abbastanza presto, con il profumo di caffelatte che riempiva la cucina, con il rumore del cucchiaio che la mano industriosa della mamma sbatteva dentro alla tazza per “montare” albume e tuorlo, perché chi studia deve nutrirsi bene, eravamo considerati esclusivamente animali da studio, le vacche producevano latte, gli alberi davano frutti e noi ragazzi dovevamo solamente studiare per la sicurezza del pezzo di carta, per la “posizione” nella vita e per la tranquillità della pensione futura e l’ovetto mattutino faceva parte di questo rito. Ricordo ancora il bianco dell’albume che debordava dalla tazza e mia madre che vi gettava dentro il tuorlo che veniva inghiottito da quella montagna di neve zuccherata, poi un goccetto di marsala e noi eravamo bell’e pronti per affrontare la quotidiana fatica della scuola, che poi fatica non lo era affatto, anzi era un piacere, il piacere dello stare insieme ai compagni, il piacere di quella incoscienza che accompagnava inevitabilmente quegli anni beati e oggi che le scuole chiudono i battenti il cuore viene riempito da questa ondata blu di ricordi che si infrange sugli scogli del presente e scaglia in alto tutta una spuma di sentimenti che si mescola a questa giornata di sole che prelude all’estate.
L’estate era sinonimo di giornate incredibilmente lunghe, con l’assordante concerto delle cicale che copriva tutti i rumori ovattati della città immersa in interminabili ozi meridiani, l’estate aveva l’acre odore della polvere del campetto dei Salesiani che calpestavamo rincorrendo un pallone i cui rimbalzi non seguivano di certo le normali leggi della “riflessione” per via della sua rotondità insultata dalla applicazione di una quantità incredibile di “pezze” che lo facevano andare qua e là, estate era la frescura che ti accoglieva quando alla sera dopo cena si andava al cinema all’aperto sazi della giusta fatica del gioco, ecco che cos’era l’estate, l’estate dell’infanzia, che col passar del tempo assunse aspetti malandrini e pruriginosi. L’estate, scriveva Orio Vergani, “è calata sulla città come un falco”, e la città (Vergani si riferisce a Venezia, ma la considerazione si estende a tutte le città e calza a pennello anche a Ravenna, che è città di mare, come Venezia) “è piena di seni, di petti, di mammelle nelle magliette attillate, nelle camiciole vastamente scollate. Come nessun altro, questo è il secolo, o almeno questa è la generazione della mammella. L’estate fa fiorire Venezia di seni come un frutteto”. Così scriveva Vergani nel 1954. Fosse vissuto in questi tempi chissà cosa avrebbe scritto!
Chiudono le scuole e la polvere torna sui banchi in attesa dell’autunno. Le scuole chiudono i loro portoni davanti al lungo sbadiglio dell’estate, con le giornate che si stirano pigre come tanti gatti al sole, con le notti brevi e caldissime, coi pleniluni e le stelle cadenti.
La sera è caldissima. La luna è al primo quarto e tramonterà poco dopo la mezzanotte. “Stasera non mi va di stare solo – cantava Bruno Martino – con questa luna accesa per metà…”. Bruno Martino, le atmosfere del night sotto le stelle, fra la resina dei pini… e le giacche di lamè di Peppino di Capri che ha accompagnato gli anni beati del tempo della scuola, con quella sua voce inconfondibile. “La tua voce, dopo tutto, è la migliore del mondo: la sola che sembra uscire dal mio guanciale e rientrarvi. È nuova ed è antica. Cantami una mezza ‘Canzone appassiunata’ arrangiata da te. Così la mia scialba morte sarà di oggi e di ieri, dondolante fra il 1961 e il 1920, una morte senza età…”. Così scriveva Giuseppe Marotta ricordando Peppino, che in questa sera calda mi si è affacciato sul davanzale della memoria, aperto sui ricordi di fine anno scolastico.

Franco Gàbici

 

Orio Vergani (1898-1962) scrive le considerazioni su Venezia in “Misure del tempo” (a cura di Nico Naldini), Milano, Baldini & Castoldi, 2003, p.274.
La citazione di Marotta è tratta dall’album “Napoli ieri. Napoli oggi” di Peppino di Capri (Splash SPLL 701).

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002) .

 

 

 

 

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