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Primo titolo:
Franco Gàbici «Gadda - Il dolore della cognizione»
Una lettura scientifica dell'opera gaddiana - Isbn 88-86792-40-9

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di memoria, cultura e molto altro...




Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

3 gennaio 2003

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Giungeva inevitabile, nel bel mezzo delle allegre riunioni fra amici, il momento della chitarra, che mi costringeva, seppure un po’ controvoglia devo dire, a diventare il protagonista della scena, ma ahimè ero l’unico della combriccola a saper suonare la chitarra e non potevo evitare quella forca caudina. Per mia fortuna, però, c’era sempre il repertorio di Giorgio Gaber a trarmi dall’impicciosa situazione, perché certe sue canzoni sembravano essere fatte apposta per essere cantate in compagnia. E allora via con il "do maggiore" di Porta romana o con il giro armonico in "mi bemolle maggiore" de La ballata del Cerutti (sulla copertina del 45 e sullo spartito si vedevano il Gaber incappottato, con un Cerutti di spalle e una lambretta) e l’allegra Trani a go go, che a modo suo era una casereccia antologia di Spoon River che emergeva fra i fumi delle sigarette e del vino di un anonimo locale di periferia, un locale abbastanza per male per la verità, che stava laggiù nella seconda traversa a sinistra del viale con la gente che passava la sera scolando Barbera.
Ma la carrellata di Gaber si apriva sempre con il classico Porta romana, un tradizionale che lui aveva arrangiato e praticamente riscritto. Porta romana bella, Porta Romana, è già passato un anno da quella sera… dentro c’era il senso proustiano del tempo fuggitivo e la poesia dell’amore casto e puro mescolato all’amara lezione della vita, ma un giorno tu mi hai detto adesso basta, io zitto preferivo non sentire, ma tu hai insistito no sul serio basta, come se fosse facile capire… non basta infatti l’amore, la vita chiede qualcosa di più e così va a finire che mi han detto che sei andata ad abitare, in un quartiere nuovo più elegante, ti sei sposata è giusto e regolare, da me lo so non t’aspettavi niente… destino comune a tanti ragazzi e anche Enzo Jannacci nella sua La luna è una lampadina urlava lo sanno tutti che sei su con Lino il barbiere perché ha un mucchio di soldi…
Giorgio Gaber è morto e in quelli della mia generazione ha lasciato in fondo al lacrimatoio un soave precipitato di poesia e di tenerezza.
Lui esplose con Non arrossire, ma aveva già alle spalle esperienze rockettare con Ciao ti dirò e Non occupatemi il telefono.
Non arrossire aveva la delicatezza del poeta e quel verso non si fa del male se puro è l’amor pareva un anacronistico stilnovismo e invece andava dritto al cuore e in pieno boom faceva vibrare le corde mai arrugginite di un romanticismo del quale tutti ci siamo vestiti. Ma poi voltavi il disco e ti assalivano le note allegre di Ninfetta, che aveva la coda di cavallo e il riccio sulla fronte.
Poi Gaber cambiò registro e con una scelta coraggiosa passò decisamente alla canzone d’autore. Era un altro Gaber, più maturo, ma coerente con quella linea che avevano inaugurato i cantautori della prima ora coi loro malesseri e i loro trilli di scomodi grilli parlanti sui muri lisci e puliti del progresso e del benessere. Ma io sono affezionato al Gaber della prima maniera, che passava dall’allegria del Cerutti Gino alle delicatezze di Geneviève o alla poetica surreale e magica di quella straordinaria canzone che si intitolava Le strade di notte… la canticchiavo sempre quando la sera tardi (per quei tempi "tardi" voleva dire le undici di sera, pensate un po’!) tornavo da casa di Anna, dove avevo fatto la mia canonica capatina per la consueta "copiatina" del compito da presentare la mattina dopo a scuola, ma in pratica avevamo chiacchierato attorno al giradischi fumando qualche sigaretta e ascoltando Paul Anka e Peppino di Capri. E quando ritornavo a casa mi trovavo a dover percorrere una strada larga e deserta… le strade di notte mi sembrano più grandi… scendevo dalla bicicletta perché volevo godermi la poesia di quei momenti con le note di Gaber dentro alla testa… è perché non c’è in giro nessuno, anche i miei pensieri, di notte, mi sembrano più grandi e forse un poco più tristi… ed era proprio così, accidenti se era vero.
Penso a tutto questo pensando a Gaber che non è più e a quel mondo che ha mirabilmente descritto nel suo universo milanese degli anni Sessanta, con il cortile largo e fatto a sassi, con il pomeriggio (…) tutto nostro che spalancava la spensieratezza gioiosa dei prati (in giro per i prati fino a sera) e con il cinemino quasi fatto apposta con due film in una volta cento lire…
Fuori è grigio. Una nebbiolina avvolge tutte le cose, e avvolge anche il ricordo di quella strada che percorrevo spesso, la sera tardi, quando tornavo da casa di Anna e che, a quei tempi, di notte, mi sembrava grande per davvero.

Franco Gàbici

 

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002) .

 

 

 

 

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