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Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

2 Giugno 2002

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«Il cavallo, se così si può dire, ha quattro ascelle e perciò soffre il solletico il doppio dell'uomo». Sembra una battuta scema tratta dal repertorio di un comico qualsiasi e invece, pensate un po', viene da quel grandissimo personaggio che è Robert Musil (1880-1942), che a mio modo di vedere forma, insieme a Joyce e a Proust, uno dei "triangoli" più splendendi del cielo della letteratura del Novecento. Musil disquisisce sul "riso", non inteso come graminacea ma come espressione emotiva dell'uomo, e contrariamente al pensiero di certi psicologi che sostengono il contrario, sostiene di aver visto un cavallo ridere perché, probabilmente, non reggeva al solletico che gli provocava il suo stalliere. Sfido io, con quattro ascelle!
A Musil dovevano piacere parecchio i cavalli. Uno dei suoi personaggi, infatti, il conte Leinsdorf, «possedeva l'automobile, ma poiché in pari tempo era attaccato alla tradizione, si serviva anche talvolta di una pariglia di splendidi sauri che aveva conservato con cocchiere e carrozza» e quando si reca alla adunanza della Azione Parallela si fa trainare da questa coppia di cavalli, che hanno pure un nome, Pepi e Hans. «Era difficile capire - scrive Musil - che cosa avessero in mente i cavalli», eppure riesce mirabilmente a descrivere lo stato d'animo del cavallo quando, liberato dalla schiavitù del branco, si lancia con le froge al vento nella pazza libertà della corsa, «perché quando l'animale è solo e lo spazio gli sta aperto nelle sue quattro dimensioni, sovente un fremito di follia gli attraversa il cervello ed egli scatta via al galoppo, senza meta, e si precipita in una terribile libertà, che è vuota in una direzione come nell'altra, finché smarrito si fermaŠ».
In letteratura il cavallo può anche diventare un simbolo, come in Gadda, della coesistenza ordine/disordine: «il cavallo rappresenta efficienza, forza, docilità obbediente, cioè funziona come simbolo di ordine, sia nell'ambito dell’euresi naturale, in quanto esprime in modo eccellente la grande ragione dell'universo, sia nell'ambito della società umana, nella quale adempie perfettamente ai servizi e alle funzioni a cui viene adibito. Senonché questo animale [Š] è normalmente rappresentato mentre semina polpette o adempie ad altra bisogna fisiologica, con una prospettiva che privilegia sempre, in un'accentuazione caratteristica di certi enfatici modi della pittura caravaggesca (e si sa quanto lo scrittore amasse Caravaggio), le parti posteriori, tanto che è difficile trovare un cavallo gaddiano che non mostri le natiche, poderose magari e ritmicamente in movimento».
E ancora i cavalli diventano i protagonisti della drammatica chiusa del "Diario del seduttore" di Kierkegaard: «Ancora non vedo la mia carrozzaŠSento uno schiocco di frusta. È lui, il mio cocchiereŠ Sferza! Per la vita e per la morte! Crollino pure i cavalli, ma non un secondo prima che saremo giunti a destinazione!».
Ma il cavallo è anche il simbolo di una civiltà scomparsa. Oggi i cavalli li abbiamo impacchettati, miniaturizzati e li abbiamo sbattuti dentro ai motori. Non li chiamiamo neppure cavalli, troppo banale, ma HP, che è tutt’un’altra cosa! Forse aveva ragione il barista dell'elzeviro di Ennio Flaiano quando, discorrendo con un vetturino ubriaco, lancia due profezie a raffica: «Il cavallo è finito» e «Non è più l’epoca del cavallo, adesso è la macchina che trionfa». Ma l'ubriaco non ci sta e ribatte: «Tu non capisci che il cavallo non può finire. Finirà la tua macchina, ma il cavallo no». Poi l'ubriaco coinvolge nella discussione anche Flaiano chiamandolo "professore" («Professore ­ scrive Flaiano ­ è un titolo che nei bar si dà ai clienti dignitosi di cui non si riesce a capire che mestiere facciano»), ma prima ancora che Flaiano esprimesse il suo parere, il vetturino sentenziò: «Perché il cavallo è natura». E Flaiano gli dà ragione: «Lei ha detto una cosa molto giusta e bellissima. Ciò che è natura non finisce. Cioè, speriamolo». Discorsi ecologici ante litteram raccolti all’interno di un bar romano, con il vetturino ubriaco e il suo cavallo parcheggiato fuori, «la testa chinata a toccare il selciato, in piena e romana meditazione».
Bestie come queste trascinavano nell'iperuranio la platonica "biga alata". Me lo hanno insegnato a scuola e mi sembra di ricordare (tanto per restare in tema platonico) che un cavallo fisse bianco e l’altro nero, come quelli degli scacchi. E il cavallo bianco, oltre a ricordarmi quella bella bestia che in uno spot televisivo correva libera sulla spiaggia facendo réclame a un notissimo bagno schiuma, mi fa venire in mente il cavallo bianco protagonista di una storia del "Mondo Piccolo" di Giovannino Guareschi. Anche lui, a modo suo, volle cantare la fine di una civiltà con la storia di questo cavallo bianco e della sua ultima corsa. Ma pochi ricordano Guareschi, perché non è mai stato considerato un intellettuale. Scriveva, infatti, troppo semplicemente e aveva il pregio di farsi capire.

Franco Gàbici

 

La riflessione sul solletico del cavallo è tratta dal racconto «Ridono i cavalli?», in R.Musil, Pagine postume pubblicate in vita, Torino, Einaudi, 1970, p.27.
Pepi e Hans sono citati nel paragrafo 43 del musiliano L’Uomo senza qualità.
Le citazioni equine riguardanti Gadda sono in E.Gioanola, L’uomo dei topazi. Saggio psicanalitico su C.E.Gadda, Genova, Il Melangolo, pp.100-101.
Per la citazione kiekegaardiana si veda S.Kierkegaard, Diario del seduttore, Milano, Rizzoli, 1974, p.150.
L'elzeviro di Ennio Flaiano apparve sul «Corriere della Sera» il 18 settembre 1970, ma ora si può leggere in Ennio Flaiano, Opere. Scritti postumi a cura di Maria Corti e Anna Longoni (introduzione di maria Corti), Milano, Bompiani, 1988, vol.I, pp.693-695.
"Il Bianco" è tratto da G.Guareschi, Mondo piccolo. Don Camillo e il suo gregge, Milano, Rizzoli, 1965, pp. 135-141.

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996).

 

 

 

 

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