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N on andate mai a visitare i luoghi della vostra infanzia in un fiacco
pomeriggio di ottobre. Datemi retta, fatene a meno. È una esperienza
disastrosa, come quella di Roberto Mariani ne “Il sorpasso” di Dino Risi. Il
passato bisogna lasciarlo dov’è, sepolto dentro la sabbia del tempo che va
depositandosi senza misericordia nella parte bassa della grande clessidra.
La casa dove trascorrevo uno scampolo delle vacanze estive è ancora là,
praticamente la stessa, tranne una mano di intonaco e una parabola satellitare
che troneggia sulla facciata come il rosone di una cattedrale. Per il resto è
tutto rimasto uguale, con gli stessi alberi e gli stessi silenzi, lunghi e interminati.
Hanno asfaltato la strada, però, un tempo bianca di polvere. E
hanno piantato un bell’alberone di acciaio che sembra vada a ficcarsi nella
tela del cielo come una dolorosa spina nel suo fianco di cobalto. Chissà se le
rondini vi andranno a fare il nido…
Il nastro azzurro del fiume è ancora laggiù, a scorrere pigro in fondo alla valle fra i sassi bianchi che sembrano
le uova preistoriche descritte da Marquez nei suoi Cent’anni di solitudine:
“Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica
costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un
letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche”. Ma dentro
sono cambiato io, che mi rivedo ragazzo libero e randagio con nel naso l’odore
forte del greto del fiume, dell’erba appena tagliata e del tiepido sapore
della stalla e negli orecchi il canto caldo delle cicale.
Anche il piccolo cimitero è ancora là, accarezzato dagli umori del fiume, con l’acqua che
gorgoglia fra i sassi a cantare la ninna ninna a chi vi riposa da tempo coi
barattoli di conserva semiarrugginiti a fare da portafiori. Esempio della
modestia della morte (come diceva Leo Longanesi), ma anche testimonianza del
sano riciclaggio contadino, che tutto conserva. Là senz’altro riposerà
Andreone, col suo bravo barattolo di conserva sulla pancia, Andreone
che per tutto un pomeriggio litigò con una targhetta di latta da appendere
all’ingresso del suo esercizio. Lui aveva le dita grosse come salsicce e mal
si adattavano alla presa dei minuscoli chiodini che dovevano fissare la
targhetta. E il martello, distribuendo democraticamente il suo impulso fra le
minuscole capocchiette dei chiodi e le falangi delle dita, induceva in
Andreone riflessioni non propriamente teologiche sulla natura
dell’onnipotente. E dopo aver gridato al cielo le sue laiche liturgie per
tutto il pomeriggio, il cartello di latta era bell’e sistemato con la sua
brava avvertenza agli avventori che “La persona civile non bestemmia”, tranne
il caso si capisce che non si trovasse nella necessità di attaccare cartellini
di latta.
Non andate a visitare i luoghi dell’infanzia perché rimarreste delusi.
Perché in mezzo a quella solitudine di luce si avverte soltanto il tempo che pulsa come il gozzo di una
lucertola aggrappata al muro screpolato della nostra esistenza. “I luoghi che abbiam conosciuti- scriveva
Marcel Proust - non appartengono solo al mondo dello spazio, nel quale li situiamo per maggior facilità.
Essi non sono che uno spicchio sottile fra le impressioni contigue che costituivano la nostra
vita d’allora; il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto di un
certo minuto; e le case, le strade, i viali, sono fuggitivi, ahimé, come gli
anni”.
Il mistero della nostra vita è tutto lì, racchiuso in quel doloroso “ahimé”. E il ricordo
diventa dolore, anzi il ricordo è, per sua essenza, dolore.
Non andate a visitare i luoghi dell’infanzia in un pomeriggio fiacco di ottobre.
Ma a volte non se ne può fare a meno. Abbiamo voglia di farci ammaliare dal canto delle sirene
che stanno a prendere il sole sulla grande scogliera del tempo. Mezze donne e
mezzi pesci, creature d’acqua. Come Angiò, uscito dalla penna di Lorenzo Viani.
Lui viveva sulla spiaggia, in una casetta che spalancava le finestre sul
misterioso respiro del mare. Il mare l’ho visto proprio ieri sera, con la luna
che pareva una lampada senza stelo sospesa sul celeste dell’acqua. La sabbia
ha già smarrito il colore dell’estate e gli ombrelloni hanno chiuso sugli
steli le loro variopinte elitre di stoffa. Ci aspettano ancora tiepide
giornate di sole poi l’inverno stenderà il suo velo di nebbia e di silenzio
per proteggere il riposo della terra. “Comincio a mettere al coperto un po’
del dolore che patiremo quest’inverno”.
È una frase che ho letto proprio oggi nel Diario 1941-1943 di Etty Hillesum
che mi è stato consigliato da una giovane insegnante presente ad una mia conversazione
dal titolo “Il gatto di Gonzalo” con la quale parlavo di Carlo Emilio Gadda
(e anche del libro
che ho pubblicato con l’amico editore Simonelli) e dei rapporti
fra scienza e letteratura. Può succedere, dunque, che anche il conferenziere abbia a
imparare qualcosa.
Franco Gàbici
Il brano di Gabriel
Garcìa Marquez è tratto dall’incipit di Cien años de soledad,
Milano, Feltrinelli, 1973.
La citazione di Proust
è tratta da Una strada per Swann.
Angiò uomo d’acqua è un romanzo di Lorenzo Viani.
Diario 1941-1943 di Hetty Hillesum è pubblicato da Adelphi.
La frase si trova a pag. 238.
Simonelli Editore consiglia di leggere:
Gadda - Il dolore della
cognizione di
Franco Gàbici
Basta una e-mail a ed@simonel.com per
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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