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S ono io il primo a riconoscere che questa battuta è proprio scema, ma a volte le
fluttuazioni della memoria conducono anche a questo, specie se ti scaraventano
sulla tiepida spiaggia di anni lontani, come mi succede adesso, mentre sto
scrivendo, con un occhio sulla tastiera e un occhio alla finestra che si
spalanca in uno sbadiglio di caldi colori autunnali. L’autunno ha i colori delle
foglie e ricordo che ai tempi del liceo girava una battuta che definiva gli
alberi gli esseri più disgraziati dell’universo perché cominciano a spogliarsi
quando invece tutti cercano di coprirsi. Ah ah che ridere! Ma sugli alberi si
posso scrivere anche cose egregie e i poeti lo sanno benissimo. Sui banchi delle
elementari abbiamo fatto conoscenza col melograno e i cipressi alti e schietti
di Carducci, con la grande quercia di Pascoli (ma anche quella di Renato Fucini
non è da meno "Folta delle sue nuove foglie, una vecchia querce gode la vita
slanciando al sole di maggio le braccia robuste, e il vento canta alla primavera
tra le sue fronde sonore…"). Abbiamo pure imparato, chi lo avrebbe mai
sospettato, che il pioppo è femmina (alta popula, ricordate?), ma i nostri
vecchi, anche senza conoscere il latino, lo sapevano benissimo perché chiamavano
quell’albero "la pioppa" e dunque studiare non serve proprio a niente. Poi
avanti negli studi abbiamo imparato che sotto a un melo è nata la teoria della
gravitazione universale. È leggenda, d’accordo, ma cosa importa, in fondo anche
la vita è una leggenda. E abbiamo anche udito lo stormire delle fronde su uno
sfondo di spazi e di silenzi da brivido. E poi è arrivato il grande Carloemilio
(Gadda, ovviamente), con la sua venerazione per il popolo degli alberi. Insomma
alberi e alberi, alberi infiniti cantava Gino Paoli ne Il cielo in una stanza,
che però nel 1960 fu lanciato dalla mitica Mina su disco Italdisc e accompagnata
dall’orchestra di Tony De Vita. Beh, è cultura anche questa ancorché di serie B.
E mentre me ne stavo ad ascoltare il cielo in una stanza, che finì anche nella
colonna sonora della Ragazza con la valigia di Valerio Zurlini, non avrei di
certo immaginato che di lì a quarant’anni mi sarei baloccato con le
considerazioni sugli alberi che adesso vi passerò, state a sentire:Sempre presenti al Cielo, gli alberi sono le creature più naturali del mondo;
istintivi, spontanei. Creature senza peccato, si confidano ai venti, e li
assolve la pioggia, il sole. Scrisse un poeta russo che agli alberi e non a noi
è data la grandezza di una vita perfetta. Una intuizione, una verità poetica, ma
insomma una verità. E se "vivere in alto" è vita perfetta, chi più degli alberi,
liberi e sinceri? È ingiusto vederli solo sotto l’aspetto descrittivo per cavare
un po’ di colore, un po’ di poesiuccia frivola, come fossero creature unicamente
ornamentali che, a un fiato di vento o al lume di una luna, non fanno che ridere
e parlare. Sono, viceversa, presenze serie, da vedere su un piano morale
d’importanza religiosa. Sono presenze mistiche. Come dimenticare che il primo
albero rappresentò addirittura la scienza del bene e del male? Altri furono
intimamente uniti al destino degli uomini; e Virgilio e Dante ne hanno fatto
corpi e custodi delle nostre tragiche anime. (Certo anche sotto un aspetto
visivo gli alberi interessano. Basta uno – anche uno solo – a far paesaggio un
esile pesco, un platano autorevole, un ippocastano che d’autunno s’indora e
rifulge e illumina la notte).
Chi scrive queste cose è Cesare Angelini, finissimo critico letterario e
penna deliziosa. Ha scritto pure un libretto intitolato Lo Zodiaco composto da
dodici poesie ciascuna dedicata a un mese dell’anno e dico questo a beneficio di
quanti fossero intenzionati a leggerlo nella speranza di trovarci della
astrologia a buon mercato. Ma Angelini, che era un sacerdote, era una persona
seria.
Il popolo degli alberi mi ricorda anche il calviniano Cosimo Piovasco di
Rondò che un bel giorno, era il 15 giugno del 1767, decise di trascorrere la sua
vita fra le fronde degli alberi perché non voleva più ubbidire ai genitori. In
quello stesso anno Carlo Antonio Pilati (1733-1802) dava alle stampe "Di una
riforma d’Italia ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più
perniciose leggi d’Italia". L’Italia non c’era ancora e già esisteva il
malcostume italiano. Per poco Pilati non imitò Cosimo Piovasco fuggendo sugli
alberi perché il suo libro fu messo all’indice. Anche allora, cari amici, dava
parecchio fastidio dire la verità.
Franco Gàbici La quercia di Renato Fucini è tratta da Le
veglie di Neri.
La lunga citazione di Cesare Angelini si può leggere ne I
frammenti del sabato, Milano, Garzanti, 1952.
Cosimo Piovasco di Rondò è il protagonista de Il barone
rampante di Italo Calvino.
Simonelli Editore consiglia di leggere:
Gadda - Il dolore della
cognizione di
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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