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di memoria, cultura e molto altro...



Rubrica ad aggiornamento settimanale

16 novembre 2003

 

 

 

 

 

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Sono io il primo a riconoscere che questa battuta è proprio scema, ma a volte le fluttuazioni della memoria conducono anche a questo, specie se ti scaraventano sulla tiepida spiaggia di anni lontani, come mi succede adesso, mentre sto scrivendo, con un occhio sulla tastiera e un occhio alla finestra che si spalanca in uno sbadiglio di caldi colori autunnali. L’autunno ha i colori delle foglie e ricordo che ai tempi del liceo girava una battuta che definiva gli alberi gli esseri più disgraziati dell’universo perché cominciano a spogliarsi quando invece tutti cercano di coprirsi. Ah ah che ridere! Ma sugli alberi si posso scrivere anche cose egregie e i poeti lo sanno benissimo. Sui banchi delle elementari abbiamo fatto conoscenza col melograno e i cipressi alti e schietti di Carducci, con la grande quercia di Pascoli (ma anche quella di Renato Fucini non è da meno "Folta delle sue nuove foglie, una vecchia querce gode la vita slanciando al sole di maggio le braccia robuste, e il vento canta alla primavera tra le sue fronde sonore…"). Abbiamo pure imparato, chi lo avrebbe mai sospettato, che il pioppo è femmina (alta popula, ricordate?), ma i nostri vecchi, anche senza conoscere il latino, lo sapevano benissimo perché chiamavano quell’albero "la pioppa" e dunque studiare non serve proprio a niente. Poi avanti negli studi abbiamo imparato che sotto a un melo è nata la teoria della gravitazione universale. È leggenda, d’accordo, ma cosa importa, in fondo anche la vita è una leggenda. E abbiamo anche udito lo stormire delle fronde su uno sfondo di spazi e di silenzi da brivido. E poi è arrivato il grande Carloemilio (Gadda, ovviamente), con la sua venerazione per il popolo degli alberi. Insomma alberi e alberi, alberi infiniti cantava Gino Paoli ne Il cielo in una stanza, che però nel 1960 fu lanciato dalla mitica Mina su disco Italdisc e accompagnata dall’orchestra di Tony De Vita. Beh, è cultura anche questa ancorché di serie B. E mentre me ne stavo ad ascoltare il cielo in una stanza, che finì anche nella colonna sonora della Ragazza con la valigia di Valerio Zurlini, non avrei di certo immaginato che di lì a quarant’anni mi sarei baloccato con le considerazioni sugli alberi che adesso vi passerò, state a sentire:

Sempre presenti al Cielo, gli alberi sono le creature più naturali del mondo; istintivi, spontanei. Creature senza peccato, si confidano ai venti, e li assolve la pioggia, il sole. Scrisse un poeta russo che agli alberi e non a noi è data la grandezza di una vita perfetta. Una intuizione, una verità poetica, ma insomma una verità. E se "vivere in alto" è vita perfetta, chi più degli alberi, liberi e sinceri? È ingiusto vederli solo sotto l’aspetto descrittivo per cavare un po’ di colore, un po’ di poesiuccia frivola, come fossero creature unicamente ornamentali che, a un fiato di vento o al lume di una luna, non fanno che ridere e parlare. Sono, viceversa, presenze serie, da vedere su un piano morale d’importanza religiosa. Sono presenze mistiche. Come dimenticare che il primo albero rappresentò addirittura la scienza del bene e del male? Altri furono intimamente uniti al destino degli uomini; e Virgilio e Dante ne hanno fatto corpi e custodi delle nostre tragiche anime. (Certo anche sotto un aspetto visivo gli alberi interessano. Basta uno – anche uno solo – a far paesaggio un esile pesco, un platano autorevole, un ippocastano che d’autunno s’indora e rifulge e illumina la notte).

Chi scrive queste cose è Cesare Angelini, finissimo critico letterario e penna deliziosa. Ha scritto pure un libretto intitolato Lo Zodiaco composto da dodici poesie ciascuna dedicata a un mese dell’anno e dico questo a beneficio di quanti fossero intenzionati a leggerlo nella speranza di trovarci della astrologia a buon mercato. Ma Angelini, che era un sacerdote, era una persona seria.
Il popolo degli alberi mi ricorda anche il calviniano Cosimo Piovasco di Rondò che un bel giorno, era il 15 giugno del 1767, decise di trascorrere la sua vita fra le fronde degli alberi perché non voleva più ubbidire ai genitori. In quello stesso anno Carlo Antonio Pilati (1733-1802) dava alle stampe "Di una riforma d’Italia ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia". L’Italia non c’era ancora e già esisteva il malcostume italiano. Per poco Pilati non imitò Cosimo Piovasco fuggendo sugli alberi perché il suo libro fu messo all’indice. Anche allora, cari amici, dava parecchio fastidio dire la verità.

Franco Gàbici

 

La quercia di Renato Fucini è tratta da Le veglie di Neri.
La lunga citazione di Cesare Angelini si può leggere ne I frammenti del sabato, Milano, Garzanti, 1952.
Cosimo Piovasco di Rondò è il protagonista de Il barone rampante di Italo Calvino.

 


Simonelli Editore consiglia di leggere:
Gadda - Il dolore della cognizione  di Franco Gàbici
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Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002) .

 

 

 

 

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