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Gli anniversari mi stanno dando una mano a compicciare la
mia settimanale “Bollicina” e questa volta tocca a Ettore Schmitz, che però si
fece chiamare Italo Svevo perché ebbe compassione di quella povera vocale “i”,
schiacciata da tutte quelle orribili consonanti come una fettina di mortadella
fra due ganasce di pane (provate a scrivere il cognome in maiuscolo: SCHMiTZ. La
desolazione della povera “i” assume i connotati della tragedia).
Dunque, Svevo. Calendario alla mano, fanno settantacinque
anni dalla morte, avvenuta nel 1928 per incidente stradale e tanto per dare più
sapore alla ricorrenza va anche ricordato che “La coscienza di Zeno”, che è il
suo libro, usciva nel 1922, giusto una ottantina di anni fa. 75, 80… rispondono
ai nostri canoni di eleganza e di simmetria anche se, per la verità, esistono
numeri altrettanto eleganti che però nessuna ardisce usare come parametri per
misurare le ricorrenze.
Pensate, ad esempio, a π (il famoso, o la famosa,
“pi greco”, o “pi greca”: non ho mai osato spingere lo sguardo fra le sue
gambette per dirimere una volta per tutte la questione relativa al suo sesso) o
e (il meno famoso, per il popolaccio intendo dire, “numero di Nepero”).
Tutti sanno, infatti, che "pi greco" vale 3.14 (e mi fermo solo alle prime due
cifre decimali) mentre pochi sanno che e vale 2.71 (e anche qui mi fermo
ai due decimali per una sorta di “par condicio”). Quello che voglio dire,
insomma, è che a nessuno verrebbe in mente di iniziare un articolo in questa
maniera: 25.47π anni fa usciva “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo
eccetera eccetera… Nessuno lo scriverà mai, d’accordo, però quando andranno al
potere i matematici potrebbe diventare una sfiziosa consuetudine.
Svevo era un profeta. I grandi uomini, per la verità,
sono tutti profeti. Il fatto è che nessuno presta loro fede. Basta leggere la
parte finale del romanzo. L’apocalisse finale devo averla già citata in una
precedente “Bollicina” e pertanto non sto a ripetermi, ma questa citazione credo
sia nuova (per le “Bollicine”, si capisce): “La vita attuale è inquinata alle
radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinato
l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo
animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è
una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza…nel
numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci
guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensiero soffoco!”.
Svevo aveva davanti agli occhi il globo di vetro del
futuro e vi leggeva già l’inquinamento dell’aria e dello spazio, anticipando i
tempi calamitosi che sarebbero venuti, dominati dalle follie del “triste e
attivo animale”. E intanto tentava di disinquinare se stesso col proposito di
smettere di fumare.
Nella “Coscienza di Zeno” compare il proposito “U.S.” che
sta per “Ultima Sigaretta” e al “fumo” è dedicato niente meno che un capitolo
intero. Ma quella “U.S.”, che per la verità si trova nel capitolo “Morte del
padre”, richiama alla memoria anche le iniziali di Umberto Saba, triestino pure
lui come il Nostro, che cita il suo concittadino in un suo aforisma dedicato ai
vizi: “Bacco, Tabacco e Venere, ed altri stupefacenti, riducono l’uomo in cenere
solo se egli ne usa senza innocenza; combattuto fra la convinzione che essi gli
sono nocivi e il rimorso di non potersene astenere. È, un poco, la storia
dell’ultima sigaretta di Svevo…”.
Un altro aforisma è intitolato “La bistecca di Svevo” dove Saba racconta che Svevo a sua volta raccontasse divertito “di non
aver mai mangiato con tanto gusto una bistecca come verso la fine dell’altra
guerra, quand’egli era (o credeva di essere) il solo della città a potersela
permettere” e poi Saba continua e conclude facendo l’esegesi di questo aneddoto
attribuendo alla bistecca sveviana incredibili risvolti economici: “Ma, senza
saperlo, egli [Svevo] toccava […] il vero problema dell’economia mondiale […] La
bistecca di Svevo insegna che l’uomo è troppo bambino per godere di un bene
senza mettere l’accento sul fatto che altri ne sono privi, che quel bene è il
suo privilegio (di figlio unico o preferito). Se così non fosse, non
esisterebbero oggi, con tanti mezzi di produzione e di trasporto, la miseria e
la fame. Basterebbe così poco a trovare una via d’accomodamento! Ma so bene che
quel ‘poco’ è una mera apparenza, appena un modo di dire; che prima che l’uomo
impari a leggere, a compitare, una sillaba in più in questa direzione,
deve cascargli ancora, e più di una volta, la vòlta del cielo sulla testa”.
Da Svevo a Saba. Oggi mi è andata così. E vi passo, a mo’
di conclusione, un’altra “scorciatoia” di Saba, la numero 35: “Il Novecento pare
abbia un solo desiderio: arrivare prima possibile al Duemila”. È una di quelle
frasi che dice tutto e non dice nulla, ma è una di quelle frasi che quando la
leggi ti senti dentro l’impressione che prima o poi finirà dentro a un libro. I
libri, infatti, sono pieni di frasi che sembrano dire tutto e invece non dicono
proprio un bel niente. E tutte queste frasi, messe una dietro l’altra,
formerebbero una lunghissima catena di insulsaggini se a qualcuno non fosse
venuto in mente di chiamarle invece “letteratura”. Beh, anche questa potrebbe
finire dentro a un libro. Cosa ne dite?
Franco Gàbici
La citazione di Svevo si trova alla fine de “La coscienza di Zeno”.
Le citazioni di Umberto Saba sono tratte da “Scorciatoie” (la n.63 è intitolata
“Bacco Tabacco e Venere”, la n.22 “La bistecca di Svevo”).
Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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