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Primo titolo:
Franco Gàbici «Gadda - Il dolore della cognizione»
Una lettura scientifica dell'opera gaddiana - Isbn 88-86792-40-9

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Rubrica ad aggiornamento settimanale
 

19 gennaio 2003

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Quest’anno ricorre il bicentenario della morte di Vittorio Alfieri, scomparso a Firenze l’8 ottobre 1803, autore di tragedie, di rime e di molte altre opere («Il Misogallo», ad esempio), ma che si è guadagnato la fama per quel suo motto «volli, e volli sempre, e fortissimamente volli» che viene di solito sventolato sotto le narici dei pigri e degli svogliati.
Guardate Alfieri e imparate da lui!
Il motto, contrariamente a quello che verrebbe da pensare, non è contenuto nella Vita, che fra l’altro lesse anche Giacomo Leopardi restando di stucco al punto da scrivere «Letta la vita dell’Alfieri scritta da esso che si trova nelle "Poesie sparse"» e che conclude con un commento pessimistico e sfiduciato della serie «io mai non riuscirò a comporre sonetti come faceva il Vittorio» e con il proposito di andare a fare una visita al sepolcro e alla casa di Alfieri.
Lungi da me la presunzione di paragonarmi a Giacomo, ma la casa di Alfieri l’ho visitata anch’io ad Asti, per ben due volte, e rimasi colpito da un foglietto che il Vittorio faceva appiccicare all’uscio di casa a beneficio di quanti andavano a rompergli le scatole. E in effetti il Vittorio non doveva essere un tipo socievole, almeno a sentire i versi del Foscolo che nei «Sepolcri» (vv.188-191) così lo ricorda: «e a questi marmi/venne spesso Vittorio ad ispirarsi/irato a’ patrii Numi, errava muto/ove Arno è più deserto, i campi e il cielo/desioso mirando». E lo stesso Foscolo mette nella penna del suo Jacopo le costumanze misantrope del fero allobrogo: «l’unico mortale ch’io desiderava conoscere era Vittorio Alfieri; ma odo dire ch’ei non accoglie persone nuove; né io presumo di fargli rompere questo suo proponimento che deriva forse da’ tempi, da’ suoi studj, e più ancora dalle sue passioni e dall’esperienza del mondo. E fosse anche una debolezza, le debolezze di sì fatti mortali vanno rispettate; e chi n’è senza, scagli la prima pietra».
Insomma, a farla corta, il celeberrimo motto alfieriano non è contenuto nella Vita, ma nella Lettera responsiva a Ranieri de’ Calsabigi scritta a Siena il 6 settembre 1783 con la quale faceva partecipe il corrispondente del successo ottenuto dalla sua prima tragedia Cleopatra (rappresentata a Torino) e della sua volontà di diventare a tutti i costi un "autore tragico". Il Vittorio, dunque, se lo era imposto come programma di vita e lo riteneva un dovere nei confronti del pubblico che lo aveva applaudito per cui, scrive, «da quel giorno in poi volli, e volli sempre, e fortissimamente volli», diventare cioè un autore tragico.
Poi, come succede a tutti i grandi personaggi, arriva il momento della verifica con lo specialista di turno che tenta di ricostruire la personalità e così con una certa sorpresa si legge nell’Esame psichiatrico di V.Alfieri che quel motto tanto sventolato era una balla cinese e che il nostro ebbe disturbi proprio nella volontà: «Le alterazioni più gravi nella psiche del nostro ci sono rivelate dalla volontà, nel cui campo esplodono numerose le azioni psichiche riflesse e imperversano gli atti impulsivi come uragano ruinante. Ha un bel ripetere che volle, che volle sempre, che volle fortissimamente…».
Alfieri e Leopardi hanno anche una interessante esperienza comune: entrambi furono a Ravenna (Vittorio andò di proposito, mentre Giacomo fu obbligato) e visitarono la tomba di Dante traendone sensazioni differenti. Vittorio fu sconvolto e pianse («un giorno intero vi passai fantasticando, piangendo, e pregando»), mentre le glandole lacrimali di Giacomo lavorarono a vuoto («ma io che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sentito alcun moto di tenerezza su quello di Dante»). Al di là di queste diverse sensazioni, sia Alfieri che Leopardi chiamano il Poeta "padre", il primo nel sonetto A Dante, il secondo nella canzone Sopra il monumento di di Dante.
Uomo del Settecento, ma con un piede nel Romanticismo, ebbe nelle scarpe la voglia di correre, anticipatrice delle nostre moderne pazzie: «Quel volar del calesse mi dava intanto un piacere, di cui non avea mai provato l’eguale […] di posta in posta, con una continua palpitazione di cuore pel gran piacere di correre».
E concludo queste considerazioni un po’ così sul bicentenario alfieriano con un giudizio dell’"allobrogo" (così era chiamato il nostro) sugli eroi della carta stampata. Sentite cosa scriveva:

Dare e tor quel che non s’ha,
è una nuova abilità!
Chi dà fama?
I giornalisti.
Chi diffama?
I giornalisti.
Chi s’infama?
I giornalisti.
Ma chi sfama i giornalisti?
Gli oziosi, ignoranti, invidi, tristi.

Cosa avrebbe scritto il vecchio Vittorio se fosse vissuto ai nostri giorni e avesse dovuto fare i conti con una quantità incredibile di testate e di telegiornali di mille cotte? Mah, manzonianamente affideremo l’ardua sentenza ai posteri.

Franco Gàbici

 

Le citazioni di Alfieri sono tratte dalla Vita, mentre quelle di Leopardi dallo Zibaldone.
La citazione foscoliana è tratta da Le ultime lettere di Jacopo Ortis, Parte 2,4.

 

Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002) .

 

 

 

 

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