Sto rileggendo il Robinson Crusoe di Daniel Defoe e il termine "rilettura" si
adatta benissimo sia perché, come disse Italo Calvino, "i classici sono quei
libri che si rileggono", sia perché si tratta di una vera e propria rilettura,
del tutto diversa da quella che ogni ragazzino si è sobbarcato in tenera età,
quando gli mettevano in mano una edizione ridotta di questo lavoro di Defoe e
non quella sberla di settecento e passa pagine che costituisce invece
l’edizione integrale.
Devo dire che questo interesse per Defoe è stato
motivato
dalla lettura di una recensione dell’Oscar Mondadori che reca in appendice uno
scritto di James Joyce, grande appassionato di Defoe (pare nientemeno che
fosse
il suo scrittore preferito). Joyce, inoltre, considera Defoe il primo vero
scrittore inglese che non abbia copiato o scimmiottato opere di altri autori.
Il grande irlandese è veramente spietato: dice che i "Racconti di Canterbury"
sono una rifrittura del nostro "Decamerone" o del "Novellino", che Milton ha
scritto il "Paradiso perduto" ispirandosi al poema dantesco ("è una
trascrizione puritanica della Divina commedia") e che Shakespeare è "un
inglese
italianizzato". Ne ha per tutti il vecchio James. E ricorda anche che tutto un
esercito di "pedanti", magari invidiosissimi delle 80 mila copie
del "Robinson", andò a cercare con il lanternino gli errori e le incongruenze
del romanzo. Lo stesso Defoe lanciò una frecciatina a tutta la mandria di
invidiosi che fin dall’inizio tentarono di spaccare il capello in quattro alla
ricerca di errori e incongruenze: "Tutti gli sforzi degli invidiosi per
rimproverare al libro di essere un’opera di fantasia - scrive Defoe in "Le
ulteriori avventure di Robinson Crusoe" - di frugarlo da cima a fondo in cerca
di errori di geografia, di incoerenze nel racconto e di contraddizioni nella
relazione dei fatti sono falliti e si sono dimostrati impotenti quanto
maligni".
E invece qualche incongruenza si trova.
Come poteva Robinson, scrive
Joyce, "riempirsi le tasche di biscotti se si era spogliato prima di nuotare
dalla spiaggia alla nave arenata? Come poteva vedere gli occhi del caprone nel
buio pesto della caverna? Come potevano gli spagnoli dare al padre di Venerdì
un patto in iscritto se non avevano né inchiostro né penne d’oca?".
Ai "pedanti", però, che evidentemente non sanno di astronomia, è sfuggito un
altro clamoroso errore, che io ho trovato alla pagina 139, quando Robinson
avverte il lettore che seminò i chicchi di grano in febbraio, "poco prima
dell’equinozio d’inverno". In inverno non ci sono equinozi, ma solamente
solstizi. Gli equinozi, infatti, corrispondono al primo giorno di primavera e
al primo giorno di autunno, mentre i solstizi decretano l’inizio dell’estate e
dell’inverno.
Ma questo Robinson è veramente esistito o è un personaggio frutto della
fantasia di uno scrittore che lo ha considerato il "simbolo della conquista
brittanica" (il fedele Venerdì, invece, sarebbe il simbolo delle razze
assoggettate)? Pare che Robinson, seppure sotto altro nome, sia veramente
esistito e se i "curatori" avessero aspettato il 2004 avrebbero potuto fare
uscire la nuova edizione del romanzo in coincidenza con i trecento anni dello
sbarco del marinaio scozzese Alexander Selkirk su un’isola deserta, sbarco che
avvenne proprio nel 1704. Il malcapitato vi restò fino al 1709, quando il
corsaro Wood Rogers lo tolse da quell’impicciosa situazione prendendolo con sè.
Vero il marinaio, dunque, e vera anche l’isola, chiamata ufficialmente Màs a
Tierra, l’isola più grande dell’arcipelago delle Juan Fernandez, a circa 670
miglia a est di Valparaiso. Questo arcipelago era stato scoperto nel 1572 dal
marinaio spagnolo Juan Fernandez. L’isola è descritta come molto feconda,
ricca
di acqua potabile, di animali... insomma un piccolo paradiso per un uomo
costretto a viverci nella più completa solitudine. Nel 1945 uscì da Hoepli un
volumetto illustrato intitolato "Il vero Robinson" scritto da X.B.Saintine.
Resta comunque il romanzo di un uomo che trovatosi a vivere una situazione di
grandissimo disagio riesce pur sempre a sopravvivere. È ancora lontana l’arte
del trekking e del fai da te e in sostanza questo Robinson dà il via al primo
corso di sopravvivenza della storia dell’uomo. In fondo siamo tutti un po’ dei
Robinson che ci arrabattiamo a organizzarci la vita dentro alla deserta isola
del mondo, con la sola differenza che mentre Robinson era veramente solo, noi
possiamo aprire la porta di casa e affacciarci sui rumori del mondo, che
saranno tristi e insopportabili quanto volete, ma che alla fine ci tengono pur
sempre compagnia. Infine questo romanzo di Defoe è anche un invito ad
apprezzare la solitudine ed a recuperarne il valore.
A volte fa bene star soli
e isolarsi dai rumori del mondo per poter guardare in faccia a noi stessi.
Senza veli e con coraggio (che non sempre ci troviamo). Per capire noi e il
nostro mistero. Vi passo questa considerazione di Hermann Hesse: "Ogni uomo
però non è soltanto lui stesso; è anche il punto unico, particolarissimo, in
ogni caso importante, curioso, dove i fenomeni del mondo s’incrociano una
volta
sola, senza ripetizione. Perciò la storia di ogni uomo è importante, eterna,
divina, perciò ogni uomo fintanto che vive in qualche modo e adempie il volere
della natura è meraviglioso e degno di ogni attenzione. In ognuno lo spirito
ha
preso forma, in ognuno soffre il creato, in ognuno si crocifigge un
Redentore".
Così parlò Hermann Hesse e accidenti se parlava bene!
Franco Gàbici
La citazione finale di Hesse è tratta da: H.Hesse, Demian, Milano, Mondadori,
1972, pp. 53-54.
Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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