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182 Ravenna, 28 novembre 2005
Se Vespa non apparisse ogni sera in tv
li venderebbe i suoi libri?
Nel novembre del
1955 frequentavo la seconda media inferiore e la televisione, roba da signori,
era nata da poco. Stava nella culla a cacciar fuori i primi vagiti e nessuno
immaginava quale razza di mostro sarebbe uscito da quello scatolone
dall’apparenza innocua che elargiva programmi in bianco e nero “a miracol
mostrare”. E fra questi ci fu il mitico “Lascia o raddoppia?” condotto da
un ragazzotto italo americano che con la televisione ci sapeva fare eccome tant’è
che continua a imperversare, simpaticamente devo dire, sul piccolo schermo.
Umberto Eco, con tutta la spocchia tipica degli intellettuali, gli dedicò
perfino uno studio e definì Mike il simbolo del “valore della mediocrità”, ma
intanto dopo mezzo secolo Mike è ancora sulla breccia mentre Eco, fra cinquant’anni,
probabilmente sarà ricordato per l’errore madornale posto all’inizio del suo
“Pendolo di Foucault”.
A me il Mike piace, mi sta simpatico e lo seguo fin dai tempi di
“Lascia o raddoppia?”, il programma che in questi giorni è sulla bocca di tutti
perché la prima puntata del quiz fu messa in onda proprio cinquant’anni fa, il
26 novembre del 1955 (alle ore 21.05, per essere esatti), preceduto da una
puntata presentazione il sabato precedente.
Mike, il conduttore, era originario degli Usa dove impazzava un
programma simile, ma la trasmissione guida fu il quiz “Quitte o double?” della
televisione francese (dal quale fu copiato paro paro il nome). Prima valletta fu
Maria Giovannini, sostituita quasi subito da Edy Campagnoli. La regia era
affidata a Romolo Siena mentre il notaio, capostipite dei famosi e terribili
“signor no” della tivù, si chiamava Niccolò Livreri, al quale subentrò il più
popolare Carlo Marchetti. Bisogna dar gloria anche al pupazzetto logo della
trasmissione, un ragazzino scarmigliato con il classico dito in bocca
nell’atteggiamento di chi sta pensando (mancava solo la nuvoletta con “numble,
numble…”) uscito dalla matita di Ennio Di Maio.
Per partecipare al gioco il concorrente doveva scegliere fra sedici
materie, tutte elencate in un grande pannello: musica lirica, musica sinfonica e
da camera, musica leggera e jazz, teatro di posa, teatro di rivista e varietà,
cinema, arti figurative, storia d’Italia, letteratura italiana, scienze fisiche
e naturali, moda, calcio, ciclismo, atletica, filatelia e numismatica e
gastronomia.
I concorrenti venivano pagati non con la vile moneta, ma con i
famosi gettoni d’oro del valore di 40 mila lire. A furia di raddoppiare si
poteva raggiungere la cifra favolosa di 5 milioni e 120 mila lire pari a 128
gettoni d’oro. Chi cadeva aveva comunque un premio assicurato di un gettone
d’oro e se aveva già raggiunto la somma di 640 mila lire aveva come premio di
consolazione una Fiat Seicento, ultima nata della Fiat, che era pur sempre
meglio di niente specie se si considera che una 600 aveva il valore di parecchi
stipendi di un operaio.
Primo milionario della televisione fu Luciano Zeppegno che,
rispondendo a tutte le domande sull’architettura, portò a casa i 128 d’oro. E
divenne un divo, con tanto di servizi sui giornali così come lo divennero tutti
gli altri, Gianluigi Mariannini, Paola Bolognani, Lando Degoli (famoso per la
questione del “controfagotto”). Insomma, la televisione elargiva denaro e
soprattutto popolarità al punto che mi verrebbe quasi da fare una riflessione
controcorrente sulla televisione, il divismo e lo strapagamento dei medesimi.
La televisione è un efficacissimo moltiplicatore di celebrità tant’è
che è sufficiente che un cretino qualsiasi passi per due o tre volte in tivù e
diventi subito popolare. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe oggi Pippo Baudo
senza la televisione e cosa sarebbero tutti gli altri mezzibusti. Ve lo dico io:
sarebbero degli onesti intrattenitori di provincia la cui fama non uscirebbe
dalla loro città o, se va grassa, dalla regione. Penso alle cifre folli
richieste dai divi del piccolo schermo e penso anche alla stupidità di chi le
concede e se io fossi il presidente della Rai, guarda te, chiederei ai divi di
pagare una tassa per poter apparire sui teleschermi. Se Vespa non apparisse
tutte le sere per televisione vorrei proprio sapere chi leggerebbe i suoi libri,
che poi va a reclamizzare su tutti i canali. E dunque è tutta pubblicità
gratuita. Dunque, concluso, è un assurdo che io lo paghi e in più lui adoperi la
tivù per promuoversi. E dico Vespa non perché ce l’abbia con lui, ma perché è il
primo nome che mi è venuto in mente. Nella storia della nostra televisione si è
verificato un gravissimo peccato originale, che consiste nell’essere caduta nel
gioco vorticoso della pubblicità. A questo proposito, devo dirvi che
recentemente ho partorito un pensiero-allegoria (Mike non c’entra. Lui gridava
“allegria!” e non “allegoria!”) davanti a una platea di teatro e avevo accanto a
me niente meno che Sergio Zavoli, che mi ha pure fatto i complimenti per quello
che ho detto mentre la platea applaudiva.
Zavoli, in quell’occasione, parlò dell’apparire di Mediaset (il
famoso Biscione) e del fatto che la Rai si adeguò ai suoi standard. Ed ecco la
mia parabola: il Biscione di Mediaset ha tutta l’aria del serpente che offre
alla Rai la mela della pubblicità e la Rai si è divorata la mela compiendo un
peccato non di superbia (come i nostri progenitori alle prese con un’altra genia
di biscioni) ma di leggerezza e magari anche di stupidità. E purtroppo per
questo genere di peccato sembra non esistere nessun battesimo rigeneratore e
così gli effetti di quel peccato di origine ce li dobbiamo sorbire tutti quanti
(vedi le “Isole dei famosi” e tutta la spazzatura catodica…). Di fronte a questo mio apologo Zavoli per un
attimo si è illuminato di immenso e ha detto che è stata proprio una immagine
geniale. Pensate a cosa sarebbe accaduto se avessi detto quelle cose alla
televisione. Avrebbero avuto una risonanza nazionale e invece mi son dovuto
accontentare del sorriso di Zavoli e di qualche applauso. Per questo motivo chi
va alla televisione dovrebbe ricevere sì, uno stipendio, ma dovrebbe anche
pagare alla Rai una tassa per tutta la pubblicità gratuita che riceve in cambio.
E invece… Ma non rattristiamoci con questi discorsi. E’ pur sempre il
compleanno di “Lascia o raddoppia?”! E allora, allegriaaaaa!
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
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