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di memoria, cultura e molto altro...      Ravenna, 29 Aprile 2009



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Franco Gàbici è Premio Guidarello di Giornalismo.

 Rane, Rane, Rane,
 e ancora Rane...


  Lo sapevate che il 28 aprile è stato dichiarato la “giornata mondiale della rana”?
  Ormai questi nostri tempi, impotenti di fronte allo scempio che stiamo facendo della natura, non sanno più che pesci pigliare e così inventano queste giornate per la salvaguardia con la speranza che la gente rifletta sul degrado ambientale. E adesso tocca alle rane, questi simpatici animaletti che sulle rive dei fossi, come cantava Giovanni Pascoli, tessono lunghi e interminabili poemi.
  Purtroppo, però, la scarsità e l’inquinamento delle acque, il degrado e la scomparsa degli opportuni “habitat”, il riscaldamento globale e chi più ne ha più ne metta stanno mettendo in serio pericolo queste innocenti bestiole. Le cifre parlano chiaro. Il 32% degli anfibi è estinta o a rischio, mentre il 42% è sul viale del tramonto. I concerti delle rane lungo i fossi stanno dunque per scomparire per sempre e vi assicuro che è un vero peccato perché i concerti delle rane sono davvero straordinari e mettono allegria alla notte.
  La rana, poi, vanta un sostanzioso pedigree letterario. A cominciare da Esopo (VI secolo a.C.) e da Fedro (I secolo d.C.) che la immortalarono nella famosa favola che ha come protagonisti il bue e la rana sciocca. In prato quondam rana conspexit bovem, et tacta invidia tantae magnitudinis, rugosam inflavit pellem, così scriveva Fedro e il suo latino è talmente facile che farei un torto ai miei lettori se passassi loro anche la traduzione. Tutti sanno come andò a finire. Gonfia e gonfia alla fine la rana esplose come una supernova.
  Morale della favola: Inops, potentem dum vult imitari, perit. Il debole, dunque, quando vuole imitare il potente, muore. Eppure ancora oggi esistono molte rane in attesa di scoppiare di fonte al pio bove che “co’l lento giro de’ pazienti occhi” (Carducci) osserva l’impresa che porterà inevitabilmente alla deflagrazione del batrace (in greco “batrachos” significa per l’appunto “rana”).
  Giuseppe Giusti, invece, nel suo “Re Travicello” racconta la delusione del popolo delle rane che dopo aver chiesto a Giove un re si vedono arrivare un “Travicello”. Ma che razza di re è mai questo, si chiedono le rane. E allora Giove manda un serpente che fa una strage di rane. Così imparate! Biscie e rane, infatti, non sono mai andate a braccetto: “Come le rane innanzi a la nimica/biscia, per l’acqua si dileguan tutte…” (Inferno, IX 76-77) e per restare nelle similitudini dantesche ricordiamo anche i peccatori dell’ottavo cerchio: “E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso/stanno i ranocchi pur col muso fuori,/sì che celano i piedi e l’altro grosso…” (Inferno, XXII 25-27) e ancora “E come a gracidar si sta la rana/col muso fuor de l’acqua…” (Inferno, XXXII 31-32).
  Le rane capeggiate da sua maestà Gonfiagote scesero in campo contro i topi di Rubabriciole nella famosa “Batracomiomachia” che in tempi relativamente recenti fu tradotta in italiano dal nostro Leopardi che poi ne scrisse una appendice nei famosi “Paralipomeni della Batracomiomachia”. Lo stesso Leopardi che “seduto in verde zolla” passava le sere a guardare il cielo e “ad ascoltar il canto/della rana rimota alla campagna!” (da “Vaghe stelle dell’Orsa”).

  La rana è anche entrata nella fisica. Chiedetelo a Luigi Galvani, che corre il rischio di farsi sorpassare in fama dalle rane che spellava per dimostrare l’elettricità animale. Sembra però che il popolo delle rane si ribellasse e andasse a nascondersi così i fisici rimasero senza materia prima. Ci fu anche una dimostrazione di piazza, coi fisici che recavano cartelli con la scritta: “Rane e lavoro!”. Ovviamente non è vero niente, ma ve l’ho passata così, come una battuta.   E Aristofane? Lui addirittura ha scritto “Le Rane”, considerata la sua ultima grande commedia. Sì, d’accordo, dopo ne ha scritte altre due, ma questa sembra essere decisamente la sua ultima grande commedia. Giovanni Pascoli, invece, ha scritto la poesia “Le rane”: “Io sento gracchiare le rane/dai borri dell’acque piovane/nell’umida serenità./ E fanno nel lume sereno/lo strepere nero d’un treno/che va…”. Però, dai, confondere il gracchiar delle rane con lo “strepere” di un treno! Ah, questi poeti…
  Le rane aiutano a ricomporre il paesaggio silenzioso del Carso. Scrive infatti Scipio Slataper: “D’una stangata rompo la cima del pero, e m’acquatto di colpo per timore che il crac svegli qualcuno. Silenzio. Le rane. I cani lontano. Una stella cadente” (da “Il mio Carso”). E Guido Gozzano, che ogni professore di scienze dovrebbe conoscere per via delle sue lettere entomologiche, scrive di Lorenzo Mascheroni che “con sottile argomento di metalli/le risentite rane interrogava”. Tutto questo per dirvi che le rane sono animali importanti e simpatici. E sono anche utili. Tengono pulita l’acqua mangiando le alghe e in virtù della loro pelle che assorbe sostanze chimiche potenzialmente dannose possono essere usate come “bio-indicatori” degli equilibri dell’ambiente.   La rana, infine, mi richiama un vecchio reclame del Ferro-china Bisleri: una raganella di metallo verde che simulava il verso della ranocchia premendo una linguetta di metallo. O forse mi sbaglio. Sulle bottiglie del Ferro-china, infatti, campeggiava una testa di leone eppure mi sembra di ricordare questo gadget della raganella.
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  Qualche lettore la ricorda?
  Comunque la raganella esisteva e non mi parve vero di usarla a scuola durante le ore di lezione insieme alla scatoletta-reclame della Simmenthal che quando la rovesciavi emetteva il verso della mucca. Il professore spiegava la “consecutio temporum” e nel silenzio dell’aula mi divertivo a far risuonare il cra cra della raganella o il muggito della mucca fra le risate generali dei miei compagni di classe.
  Tempi beati, quando nessuno avrebbe pensato che cinquant’anni dopo avremmo dovuto fare i conti con la “mucca pazza” e che qualcuno avrebbe inventato la giornata della rana per salvarla dal pericolo di estinzione.
  A questo mondo non bisogna davvero stupirsi di nulla.

Franco Gàbici


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Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è stato dal 1985 al 2008 direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno - Avvenire. E' direttore responsabile della rivista Gnomonica e redattore di Nuova Civiltà delle Macchine. Presidente del comitato ravennate della "Dante Alighieri" è autore di numerosi saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002; SeBook, 2004), "Buon Compleanno,ONLY YOU!" (Simonelli Editore, SeBook, 2005), Una Canzone al Giorno" (Simonelli Editore, 2007).



 
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