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Io sono della Juventus e voi?
È cominciato il campionato di calcio e ancora una volta
l'Italia è entrata nel pallone...
Ci siamo, amici, è ricominciato
il campionato (di calcio, ovviamente) e così gli italiani avranno di che
discutere su cose serie per tutta la settimana. Ed è iniziata anche la solenne
scorpacciata di pallone che fra gare giocate alla domenica, anticipi, posticipi,
coppe e supercoppe fa sì che il pallone irrompa nel nostro quotidiano per tutti
i sacrosanti giorni della settimana. “Il processo del lunedì”, intanto, taglia
il traguardo dei venticinque anni, con l’immarcescibile Biscardone a tenere
saldamente il timone e a lanciare i suoi proclami al popolo della pelota. E son
battaglie sacrosante, come la moviola in campo ad esempio. Mica bazzecole.
A me piace il calcio e anche se non sono un forsennato tifoso seguo le partite
con un certo interesse. Come tutti i romagnoli che si rispettano ho il cuore
bianconero, nel senso che fin da bambino tifo per la Juventus, squadra che ho
iniziato a seguire fin dai tempi di Boniperti, Muccinelli, i fratelli Hansen e
poi, al tempo del liceo, mi sono beato delle giocate di John Charles e di Omar
Sivori detto “el cabezon”. In fondo era quello il calcio che mi piaceva, coi
giocatori che scendevano in campo con le maglie numerate dall’uno all’undici per
cui sapevi che il numero 4 era il mediano destro, il 9 il centravanti e l’11
l’ala sinistra. Adesso le schiene dei giocatori sembrano delle tabelline
pitagoriche, con i numeri più impensabili. Chissà, andando avanti di questo
passo, troveremo prima o poi anche i numeri irrazionali o trascendenti.
Aspettiamo con fiducia. Così andando allo stadio si imparerà anche un po’ di
matematica.
E poi ci sono altre cose che non riesco a capire. La cosiddetta “media inglese”,
ad esempio, che tiene conto della tanto temuta “trasferta”. Mi sembra ridicolo
che il calcio del terzo millennio tenga ancora conto di questa “media”,
evidentemente pensata agli inizi del gioco, quando andare in trasferta
rappresentava per i calciatori un vero disagio. Mi raccontava mio padre che ai
suoi tempi (anni Trenta e Quaranta del secolo scorso) certe trasferte (quando
ovviamente la distanza era ragionevole, diciamo una cinquantina di chilometri)
si facevano addirittura in bicicletta e pertanto dopo una pedalata si era
costretti a incrociare i tacchetti con la squadra avversaria. Logico, pertanto,
essere indulgenti con chi si sobbarcava la trasferta. Ma oggi, santo cielo,
tutto questo è ridicolo. Si parte in pullman iperconfortati due o tre giorni
prima della partita, si soggiorna in alberghi da mille e una notte, si dorme
beatamente in camerette da far invidia a un pascià e dunque si scende in campo
nelle migliori condizioni psicofisiche. E ancora c’è qualcuno che la mena con
questa storia della trasferta. Forse perché gli atleti sentono qualche fischio
in più? Ma con quello che guadagnano dovrebbero sopportare gli uragani e se
proprio non li sopportano vadano a fare gli impiegati.
Poi c’è il luogo comune delle partite infrasettimanali, che rendono le gambe
pesanti e incidono malamente sulla partita domenicale
Nessuno pensa che questa gente ha vent’anni e che è pagata per l’appunto per
menar calci al pallone. Quando giocavo al calcio ricordo che andavo regolarmente
agli allenamenti e prima di andare a casa passavo dal campetto dei Salesiani per
tirar calci al pallone finché la luce del giorno lo consentiva. Ma avevo vent’anni
e la fatica era una cosa dell’altro mondo. E non prendevo una lira. Mi avessero
pagato fior di miliardi avrei giocato partite tutti i giorni. Lo giuro.
Il calciò è un gioco, però anche i letterati si sono appassionati alla sfera di
cuoio. Non posso citarli tutti, si capisce, ma molti ricorderanno il romanzo di
Giovanni Arpino sulla nazionale di calcio (“Azzurro tenebra”), pochi sanno che
Osvaldo Soriano (il famoso autore di “Triste solitario y final”) fu un discreto
centravanti e che dopo un incidente di gioco si dette al giornalismo sportivo e
scrisse da par suo alcuni romanzi sul calcio e scommetto che nessuno conosce
queste considerazioni sul calcio del critico letterario Francesco Flora, che
tratta la materia da par suo e facendo niente meno che considerazioni
geometriche e perfino astronomiche sul pallone. Sentite cosa scrive:
“Confesso di amare il campo erboso dei giocatori di calcio e la sua geometria di
bianche misure segnate col gesso: mi piace quel grande rettangolo le cui linee
disegnano un teorema gigante, sui numeri un po’ cabalistici della lunghezza e
della larghezza prestabilite. Mi piace il bel cerchio che appare al centro: mi
attirano i due rettangoli che delimitano l’area di rigore e gli altri due che
segnano l’area della porta. Il fremere della folla che attende, lieta e
profetica, accorata e trascolorante, cresce come un’onda, e si muta in un grido
unisono e in un croscio di applausi, quando i giocatori vengono innanzi con la
loro maglia colorata, coi calzoncini neri o bianchi, con le nere calze orlate
dagli stessi colori della maglia. Più che di una tenue corsa hanno quell’andatura
della danza che è poi, nella partita, il vero tono plastico del giocatore di
stile, il ritmo numeroso, mai arbitrario o fuori tempo. Spesso la mano elevata
sembra prendere la mano della donna, come usava ai balli di un tempo. E quando
la partita s’avvia tra le linee dell’immenso teorema, par che essi si propongano
di risolvere, con facilità di danza, astruse forme geometriche, o che talvolta,
fissi all’aereo pallone, facciano un esercizio di astronomia. Questa sfera che
nessuno (se non il portiere) può toccar con le mani, e dev’essere governata con
gli arti inferiori e con la testa: questa sfera di cuoio che chiude una camera
d’aria, e che pesa da trecentosessantotto a quattrocentoventicinque grammi è in
qualche momento un piccolo astro che ora sorvola alto in un’orbita breve,
pianeta che s’illumina di un sole d’alba di meriggio di tramonto, ora precipita
su una giovane testa e si risolleva, ora è fermato fulmineamente al suolo, ora
stridente e acceso rade il campo, ora piomba in una casa di rete, mentre la
folla getta il grido barbaro e felice: Goal! Goal! E la sorte di quel piccolo
pianeta non è preda del caso; ma è legata a due modi ritmici di una lotta
astuta, ove la ragione armonica non è predestinata, ma inventata ad ogni colpo,
con una sequela di linee e di spazi che non ammette incertezza di disegno, ma
vuol sicurezza di curve, di parabole, di rette perpendicolari e fin di cerchi.
Se in certe partite o almeno in certi momenti più felici si potesse rendere
fisso il segno delle traiettorie e trascriverlo su un pentagramma e porre le
note, si avrebbe una netta melodia”. Ecco, amici, cosa scrive Francesco Flora.
Con lui il “pallone” diventa quasi una cosa seria. Poi accendi la televisione e
già alla prima giornata di campionato vedi lo spettacolo di un calciatore che dà
una bella manata sul viso del suo avversario e che si fa espellere. E fu così
che la poesia di Flora diventa tutto a un tratto pessima prosa.
Franco Gàbici
Le considerazioni di Francesco Flora si trovano nella antologia
curata da Giuseppe Brunamontini “Racconti di sport”, edito da Garzanti nel 1974.
Simonelli Editore consiglia di leggere:
Gadda - Il dolore della
cognizione di
Franco Gàbici
Basta una e-mail a ed@simonel.com per
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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