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di memoria, cultura e molto altro...

 

Rubrica ad aggiornamento settimanale

Ravenna,
14 settembre 2004

 

 

 

 

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Io sono della Juventus e voi?
È cominciato il campionato di calcio e ancora una volta l'Italia è entrata nel pallone...

Ci siamo, amici, è ricominciato il campionato (di calcio, ovviamente) e così gli italiani avranno di che discutere su cose serie per tutta la settimana. Ed è iniziata anche la solenne scorpacciata di pallone che fra gare giocate alla domenica, anticipi, posticipi, coppe e supercoppe fa sì che il pallone irrompa nel nostro quotidiano per tutti i sacrosanti giorni della settimana. “Il processo del lunedì”, intanto, taglia il traguardo dei venticinque anni, con l’immarcescibile Biscardone a tenere saldamente il timone e a lanciare i suoi proclami al popolo della pelota. E son battaglie sacrosante, come la moviola in campo ad esempio. Mica bazzecole.
A me piace il calcio e anche se non sono un forsennato tifoso seguo le partite con un certo interesse. Come tutti i romagnoli che si rispettano ho il cuore bianconero, nel senso che fin da bambino tifo per la Juventus, squadra che ho iniziato a seguire fin dai tempi di Boniperti, Muccinelli, i fratelli Hansen e poi, al tempo del liceo, mi sono beato delle giocate di John Charles e di Omar Sivori detto “el cabezon”. In fondo era quello il calcio che mi piaceva, coi giocatori che scendevano in campo con le maglie numerate dall’uno all’undici per cui sapevi che il numero 4 era il mediano destro, il 9 il centravanti e l’11 l’ala sinistra. Adesso le schiene dei giocatori sembrano delle tabelline pitagoriche, con i numeri più impensabili. Chissà, andando avanti di questo passo, troveremo prima o poi anche i numeri irrazionali o trascendenti. Aspettiamo con fiducia. Così andando allo stadio si imparerà anche un po’ di matematica.
E poi ci sono altre cose che non riesco a capire. La cosiddetta “media inglese”, ad esempio, che tiene conto della tanto temuta “trasferta”. Mi sembra ridicolo che il calcio del terzo millennio tenga ancora conto di questa “media”, evidentemente pensata agli inizi del gioco, quando andare in trasferta rappresentava per i calciatori un vero disagio. Mi raccontava mio padre che ai suoi tempi (anni Trenta e Quaranta del secolo scorso) certe trasferte (quando ovviamente la distanza era ragionevole, diciamo una cinquantina di chilometri) si facevano addirittura in bicicletta e pertanto dopo una pedalata si era costretti a incrociare i tacchetti con la squadra avversaria. Logico, pertanto, essere indulgenti con chi si sobbarcava la trasferta. Ma oggi, santo cielo, tutto questo è ridicolo. Si parte in pullman iperconfortati due o tre giorni prima della partita, si soggiorna in alberghi da mille e una notte, si dorme beatamente in camerette da far invidia a un pascià e dunque si scende in campo nelle migliori condizioni psicofisiche. E ancora c’è qualcuno che la mena con questa storia della trasferta. Forse perché gli atleti sentono qualche fischio in più? Ma con quello che guadagnano dovrebbero sopportare gli uragani e se proprio non li sopportano vadano a fare gli impiegati.
Poi c’è il luogo comune delle partite infrasettimanali, che rendono le gambe pesanti e incidono malamente sulla partita domenicale
Nessuno pensa che questa gente ha vent’anni e che è pagata per l’appunto per menar calci al pallone. Quando giocavo al calcio ricordo che andavo regolarmente agli allenamenti e prima di andare a casa passavo dal campetto dei Salesiani per tirar calci al pallone finché la luce del giorno lo consentiva. Ma avevo vent’anni e la fatica era una cosa dell’altro mondo. E non prendevo una lira. Mi avessero pagato fior di miliardi avrei giocato partite tutti i giorni. Lo giuro.
Il calciò è un gioco, però anche i letterati si sono appassionati alla sfera di cuoio. Non posso citarli tutti, si capisce, ma molti ricorderanno il romanzo di Giovanni Arpino sulla nazionale di calcio (“Azzurro tenebra”), pochi sanno che Osvaldo Soriano (il famoso autore di “Triste solitario y final”) fu un discreto centravanti e che dopo un incidente di gioco si dette al giornalismo sportivo e scrisse da par suo alcuni romanzi sul calcio e scommetto che nessuno conosce queste considerazioni sul calcio del critico letterario Francesco Flora, che tratta la materia da par suo e facendo niente meno che considerazioni geometriche e perfino astronomiche sul pallone. Sentite cosa scrive:
“Confesso di amare il campo erboso dei giocatori di calcio e la sua geometria di bianche misure segnate col gesso: mi piace quel grande rettangolo le cui linee disegnano un teorema gigante, sui numeri un po’ cabalistici della lunghezza e della larghezza prestabilite. Mi piace il bel cerchio che appare al centro: mi attirano i due rettangoli che delimitano l’area di rigore e gli altri due che segnano l’area della porta. Il fremere della folla che attende, lieta e profetica, accorata e trascolorante, cresce come un’onda, e si muta in un grido unisono e in un croscio di applausi, quando i giocatori vengono innanzi con la loro maglia colorata, coi calzoncini neri o bianchi, con le nere calze orlate dagli stessi colori della maglia. Più che di una tenue corsa hanno quell’andatura della danza che è poi, nella partita, il vero tono plastico del giocatore di stile, il ritmo numeroso, mai arbitrario o fuori tempo. Spesso la mano elevata sembra prendere la mano della donna, come usava ai balli di un tempo. E quando la partita s’avvia tra le linee dell’immenso teorema, par che essi si propongano di risolvere, con facilità di danza, astruse forme geometriche, o che talvolta, fissi all’aereo pallone, facciano un esercizio di astronomia. Questa sfera che nessuno (se non il portiere) può toccar con le mani, e dev’essere governata con gli arti inferiori e con la testa: questa sfera di cuoio che chiude una camera d’aria, e che pesa da trecentosessantotto a quattrocentoventicinque grammi è in qualche momento un piccolo astro che ora sorvola alto in un’orbita breve, pianeta che s’illumina di un sole d’alba di meriggio di tramonto, ora precipita su una giovane testa e si risolleva, ora è fermato fulmineamente al suolo, ora stridente e acceso rade il campo, ora piomba in una casa di rete, mentre la folla getta il grido barbaro e felice: Goal! Goal! E la sorte di quel piccolo pianeta non è preda del caso; ma è legata a due modi ritmici di una lotta astuta, ove la ragione armonica non è predestinata, ma inventata ad ogni colpo, con una sequela di linee e di spazi che non ammette incertezza di disegno, ma vuol sicurezza di curve, di parabole, di rette perpendicolari e fin di cerchi. Se in certe partite o almeno in certi momenti più felici si potesse rendere fisso il segno delle traiettorie e trascriverlo su un pentagramma e porre le note, si avrebbe una netta melodia”. Ecco, amici, cosa scrive Francesco Flora. Con lui il “pallone” diventa quasi una cosa seria. Poi accendi la televisione e già alla prima giornata di campionato vedi lo spettacolo di un calciatore che dà una bella manata sul viso del suo avversario e che si fa espellere. E fu così che la poesia di Flora diventa tutto a un tratto pessima prosa.

Franco Gàbici

Le considerazioni di Francesco Flora si trovano nella antologia curata da Giuseppe Brunamontini “Racconti di sport”, edito da Garzanti nel 1974.


Simonelli Editore consiglia di leggere:
Gadda - Il dolore della cognizione  di Franco Gàbici
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Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002) .


 

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