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E se Celentano facesse solo il cantante ?
Questa è la speranza di tutti noi che
amiamo le sue canzoni e il fatto che non voglia più esibirsi in Rai perché non
gli viene data carta bianca per dire tutto ciò che vuole ci lascia molto
perplessi: chissà perché il cantante si è messo in testa di fare il predicatore
in video...
E allora come facciamo senza
Celentano in tivù? Il pensiero mi frulla nella crapa mentre sto scrivendo di
fronte allo spettacolo tardo autunnale di alberi spogli che ostentano quelle
poche foglie gialle scampate dalla ingordigia del vento e poi piove, piove e
piove, e ancora strapiove, senza posa, come su Brest, ricordi Barbara? e io qui
a pensare a come faremo senza il “molleggiato”, sarà un Natale tristissimo, oh
sì se lo sarà, ma l’Adriano nazionale pretende la assoluta libertà e non solo
libertà di canto, ma libertà di omeliare, cioè di esibirsi nelle sue prediche di
fronte al popolo.
Diceva Giovannino Guareschi che il Po è un fiume lungo più di
seicento chilometri ma secondo la sua personalissima geografia il grande fiume
era quello che scorre da Piacenza fino alla foce e il fatto che da Piacenza fino
alla Piana del Re sia lo stesso fiume non significa proprio niente. Anche la via
Emilia, diceva ancora Guareschi, va da Milano a Rimini, ma la via Emilia è
quella che va da Piacenza fino a Rimini.
Cosa c’entra tutto questo con Celentano, mi chiederete voi.
E invece c’entra eccome, perché il ragionamento guareschiano
può benissimo essere applicato al nostro Adriano e affermare che il
“molleggiato” è quello che va dal 1959 fino all’inizio degli anni Sessanta,
quando cioè si limitava a cantare e dunque a fare il mestiere per il quale era
nato. Dopo, secondo me ovviamente (e potrei anche sbagliare), Celentano sarà
sempre Celentano, ma per me non è più lo stesso di prima.
Celentano è il ragazzino sbarazzino che intorno alla metà degli anni Cinquanta
si vestiva da marinaretto per imitare il Jerry Lewis del “Nipote picchiatello”
(il film, “You’re never too young” di Norman Taurog, uscì in Italia nel 1955),
ma soprattutto fu il ragazzetto che partecipò con successo al Festival di Ancona
con “Il tuo bacio è come un rock”. Quello era Celentano, che poi avrebbe
affinato il suo genere interpretando “Nata per me”, “Il problema più importante
per noi”, “Una carezza in un pugno”, “Sei rimasta sola”… e non aveva nessuna
pretesa di far film o, peggio, di fare il predicatore.
Certo, in un paese dove tutti predicano, uno in più non è che
dia fastidio, ma ad Adriano a un certo punto della sua carriera gli è venuto a
mancare quello che comunemente viene definito il senso della misura. E poi per
predicare credo che bisogna avere anche qualcosa da dire e il “qualcosa” in
genere è supportato da letture o da itinerari di studio e di assimilazione che
non credo Adriano abbia mai percorso.
Non credo sia giusto pretendere dalla Rai, che è un servizio pubblico, una
assoluta “carta bianca” e credo che molti ascoltatori ricorderanno la sua
“sparata” sulla caccia che fece clamore soprattutto per la frase scritta sulla
lavagna il cui messaggio fu offuscato dal clamoroso errore di grammatica che il
“molleggiato” mandò in diretta fra una pausa e l’altra dei suoi lunghi silenzi.
E parlando di errori clamorosi di grammatica e pensando al paragone del Po, mi
vengono in mente il Monviso e quella fenditura nella roccia dalla quale
scaturisce il più grande fiume italiano. Li vidi nei lontanissimi anni Sessanta
e ricordo che proprio nella sorgente una mano evidentemente poco avvezza alla
penna e alle fatiche della grammatica vi scrisse “qui nase il Po” e, se non
ricordo male, pure la “s” era scritta a rovescio come in genere capita a tutti i
bambini che si cimentano con il duro mestiere dello scrivere.
Gli errori della grammatica, dunque, non hanno impedito al
nostro grande fiume di diventare un poderoso corso di seicento chilometri e
passa e forse la grammatica è una “mercanzia” inutile, ma il Po e il suo errore
clamoroso di grammatica sono lontani e sperduti e non fanno danni. Chi, invece,
pretende di andare a scrivere sulla lavagna la “e” senza accento è davanti agli
occhi di tutti e il suo messaggio, magari, verrà ingerito come oro colato. E
invece la grammatica, che piaccia o no, ha le sue regole. Proprio come la Rai.
La Rai che non dà carta bianca a nessuno, nemmeno a Celentano. Che invitiamo a
fare il cantante e a lasciar stare le prediche delle quali la gente, specie in
questi tempi, ne ha piene le tasche.
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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