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di memoria, cultura e molto altro...

 

Rubrica ad aggiornamento settimanale

Ravenna, 13 giugno 2004

 

 

 

 

 

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Caro, don Francesco Fuschini: Auguri!
Festa a Ravenna per i novanta a anni del "più grande degli scrittori cattolici viventi" come lo definì Giuseppe Prezzolini. Ma, purtroppo, don Francesco da tempo ha appeso la penna al chiodo e i suoi occhi oggi rincorrono solamente sogni e fantasie come un bambino che si affaccia per la prima volta sul mondo. Resta la riedizione del suo "Concertino romagnolo" per continuare ad apprezzare questo grande autore del Novecento.

Gli incontri ravvicinati con i grandi vecchi sono sempre uno sconquasso di malinconie che non vi dico. Non bisognerebbe mai incontrare i grandi vecchi, davvero, e invece a volte la vita ti prepara queste occasioni magari per farti riflettere sul tempo che passa e su tutte queste robe qua. Già in passato, mi sembra, devo aver ricordato il mio incontro con Marino Moretti avvenuto in una stanza dell’ospedale di Ravenna e la cosa mi impressionò non poco al punto da ficcare i miei sentimenti dentro a una “bollicina” e alcuni giorni fa la vita mi ha offerto l’occasione di un altro incontro con uno scrittore, don Francesco Fuschini, che Giuseppe Prezzolini definì il più grande degli scrittori cattolici viventi. Purtroppo don Francesco da tempo ha appeso la penna al chiodo e i suoi occhi oggi rincorrono solamente sogni e fantasie come un bambino che si affaccia per la prima volta sul mondo. Eppure don Francesco era lì con noi, ospite d’onore di un pomeriggio tutto dedicato a lui, alla sua straordinaria penna, al suo scrivere ininterrotto, alla sua inconfondibile vis polemica. Tutta la città ha voluto festeggiare i suoi novant’anni, stringendosi attorno al pretino che con la penna ha deliziato i suoi lettori con elzeviri (Il Resto del Carlino e Osservatore Romano) che per fortuna sono stati raccolti in volumi da Walter Della Monica per dar loro una vita che andasse oltre il breve spazio del mattino, triste destino delle cose di carta. E le edizioni del Girasole hanno voluto partecipare concretamente alla festa proponendo una riedizione di “Concertino romagnolo”, sulle cui pagine la patina del tempo non è riuscita a stendere il velo.
Per il piccolo Francesco il mondo finiva sull’argine del grande fiume che lambiva coi suoi umori d’acqua la piccola borgata di san Biagio di Argenta e chissà se anche lui, come Giovannino Guareschi, si sarà qualche volta seduto sull’argine per pensare se mai un giorno lo avrebbe varcato per conoscere il mondo, ma sta di fatto che un bel giorno “qualcosa” entrò dentro alla sua anima e da pescatore di anguille, come sicuramente sarebbe stato il suo futuro seguendo la fiocina del padre, divenne pescatore di anime in una landa deserta di fede ma in compenso ricchissima di umanità.
E don Francesco, che celebrava la Messa davanti a panche vuote, partì proprio dal cuore della sua gente e usò la penna come pulpito. Ironia della sorte! Sua madre, alla vista dei primi soldarelli guadagnati con lo scrivere, rimase non poco perplessa perché a suo dire i soldi andavano guadagnati seriamente con il sudore della fronte e non scrivendo delle chiacchiere. Anche i suoi nonni la pensavano allo stesso modo. Il “paterno” sentenziava che “leggere è mestiere da faraboloni e che la penna dà lo sgambetto alla zappa”, mentre il “nonno dell’altra sponda” quando fu chiamato a vaticinare il futuro del nipote ammonì la madre di farne un uomo felice e con un mestiere onesto, basta però, le disse, “che non faccia il prete o l’uomo di penna”. E invece da quel bambino che divideva le giornate di sole con le folaghe e le anguille uscì un prete scrittore. Guarda te il destino com’è dispettoso!
E se volete farvi un’idea della penna di don Francesco affondate il naso dentro alle pagine del “Concertino” e non resterete delusi. Sentite, ad esempio, queste righe dedicate a Leo Longanesi: “Longanesi fu l’anarchico romagnolo tra i miti borghesi, la dinamite del luogo comune e della retorica patriottarda: ‘La gloria ha l’acqua in bocca’. Il primo nano di Strapaese (l’altro era Mino Maccari) fu contentissimo della statura piccola che lo salvava dalla mediocrità della media altezza”. E su Marino Moretti, che gli fu carissimo amico: “Marino Moretti a Cesenatico passa la mattinata a scrivere cartoline in una calligrafia che sembra una processione di formiche; finito il lavoro di epistolografo, si mette a correggere le bozze di stampa del Meridiano: è la raccolta dei suoi romanzi di più robusta validità che Mondadori manderà in libreria a primavera con la prefazione di Geno Pampaloni. ‘Sai, i Meridiani sono dei classici: monumenti funebri alle grandi firme: io sono il primo che entra vivo in questo cimitero’. E’ il discorso che mi fa Marino tutte le volte che vado da lui a mischiare dolce sugo di amicizia”. Don Francesco passa in rassegna tutta la letteratura romagnola e la fotografa col flash della sua genialità. Così fa il ritratto ad Antonio Beltramelli: “Tutta l’opera di Beltramelli pare nata dalla stessa ispirazione, in un solo giorno. Stile o maniera che sia, la sua pagina si riconoscerebbe fra mille. L’impressione è di una ‘prosa’ voltata in ‘versi’ da un’altra lingua. Parte scalza e arriva sui trampoli”.
Questo è don Francesco, grande voce di Romagna. E’ un vero peccato che gli anni abbiano rubato l’inchiostro ad una delle penne più significative della nostra letteratura. C’era molta gente, a fargli festa, perfino il sindaco della città. E tanti, tanti amici che sfilavano in processione davanti alla sedia a rotelle per carpire qualche luce di ricordo nel suo sguardo. Ho visto don Francesco mentre i suoi “angeli custodi” dell’Opera di Santa Teresa (la stessa “casa” dove abita anche l’altro novantenne della nostra città, il cardinale Ersilio Tonini) lo portavano via. E una rondine discreta è entrata nel mio cielo con nel becco il ricordo di autunni lontani, quando mi recavo a Porto Fuori per scambiare con don Francesco due chiacchiere letterarie accanto al fuoco e davanti a un galantuomo bicchiere di Sangiovese per annegarci dentro le calde castagne. Fuori la nebbia accarezzava la terra e l’acqua del fiume portava al mare gli spenti sapori del giorno che si era appena incenerito oltre il “resegone” nero delle case. Tempi lontani, sere lontane. Come quella personalissima “sera” di don Francesco, che così chiudeva un suo elzeviro: “Quanto a me, in pace ormai me ne torno alla canonica lungo l’argine del fiume; l’acqua è viola, ed è la sera”.

Franco Gàbici


Simonelli Editore consiglia di leggere:
Gadda - Il dolore della cognizione  di Franco Gàbici
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Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002) .


 

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