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Caro, don Francesco Fuschini: Auguri!
Festa a Ravenna per i novanta a anni del "più grande
degli scrittori cattolici viventi" come lo definì Giuseppe Prezzolini. Ma,
purtroppo, don Francesco da tempo ha appeso la penna al chiodo e i suoi occhi
oggi rincorrono solamente sogni e fantasie come un bambino che si affaccia per
la prima volta sul mondo. Resta la riedizione del suo "Concertino romagnolo" per
continuare ad apprezzare questo grande autore del Novecento.
Gli incontri ravvicinati
con i grandi vecchi sono sempre uno sconquasso di malinconie che non vi
dico. Non bisognerebbe mai incontrare i grandi vecchi, davvero, e invece
a volte la vita ti prepara queste occasioni magari per farti riflettere
sul tempo che passa e su tutte queste robe qua. Già in passato, mi
sembra, devo aver ricordato il mio incontro con Marino Moretti avvenuto
in una stanza dell’ospedale di Ravenna e la cosa mi impressionò non poco
al punto da ficcare i miei sentimenti dentro a una “bollicina” e alcuni
giorni fa la vita mi ha offerto l’occasione di un altro incontro con uno
scrittore, don Francesco Fuschini, che Giuseppe Prezzolini definì il più
grande degli scrittori cattolici viventi. Purtroppo don Francesco da
tempo ha appeso la penna al chiodo e i suoi occhi oggi rincorrono
solamente sogni e fantasie come un bambino che si affaccia per la prima
volta sul mondo. Eppure don Francesco era lì con noi, ospite d’onore di
un pomeriggio tutto dedicato a lui, alla sua straordinaria penna, al suo
scrivere ininterrotto, alla sua inconfondibile vis polemica. Tutta la
città ha voluto festeggiare i suoi novant’anni, stringendosi attorno al
pretino che con la penna ha deliziato i suoi lettori con elzeviri (Il
Resto del Carlino e Osservatore Romano) che per fortuna sono stati
raccolti in volumi da Walter Della Monica per dar loro una vita che
andasse oltre il breve spazio del mattino, triste destino delle cose di
carta. E le edizioni del Girasole hanno voluto partecipare concretamente
alla festa proponendo una riedizione di “Concertino romagnolo”, sulle
cui pagine la patina del tempo non è riuscita a stendere il velo.
Per il piccolo Francesco il mondo finiva sull’argine del grande fiume
che lambiva coi suoi umori d’acqua la piccola borgata di san Biagio di
Argenta e chissà se anche lui, come Giovannino Guareschi, si sarà
qualche volta seduto sull’argine per pensare se mai un giorno lo avrebbe
varcato per conoscere il mondo, ma sta di fatto che un bel giorno
“qualcosa” entrò dentro alla sua anima e da pescatore di anguille, come
sicuramente sarebbe stato il suo futuro seguendo la fiocina del padre,
divenne pescatore di anime in una landa deserta di fede ma in compenso
ricchissima di umanità.
E don Francesco, che celebrava la Messa davanti a panche vuote, partì
proprio dal cuore della sua gente e usò la penna come pulpito. Ironia
della sorte! Sua madre, alla vista dei primi soldarelli guadagnati con
lo scrivere, rimase non poco perplessa perché a suo dire i soldi
andavano guadagnati seriamente con il sudore della fronte e non
scrivendo delle chiacchiere. Anche i suoi nonni la pensavano allo stesso
modo. Il “paterno” sentenziava che “leggere è mestiere da faraboloni e
che la penna dà lo sgambetto alla zappa”, mentre il “nonno dell’altra
sponda” quando fu chiamato a vaticinare il futuro del nipote ammonì la
madre di farne un uomo felice e con un mestiere onesto, basta però, le
disse, “che non faccia il prete o l’uomo di penna”. E invece da quel
bambino che divideva le giornate di sole con le folaghe e le anguille
uscì un prete scrittore. Guarda te il destino com’è dispettoso!
E se volete farvi un’idea della penna di don Francesco affondate il naso
dentro alle pagine del “Concertino” e non resterete delusi. Sentite, ad
esempio, queste righe dedicate a Leo Longanesi: “Longanesi fu
l’anarchico romagnolo tra i miti borghesi, la dinamite del luogo comune
e della retorica patriottarda: ‘La gloria ha l’acqua in bocca’. Il primo
nano di Strapaese (l’altro era Mino Maccari) fu contentissimo della
statura piccola che lo salvava dalla mediocrità della media altezza”. E
su Marino Moretti, che gli fu carissimo amico: “Marino Moretti a
Cesenatico passa la mattinata a scrivere cartoline in una calligrafia
che sembra una processione di formiche; finito il lavoro di
epistolografo, si mette a correggere le bozze di stampa del Meridiano: è
la raccolta dei suoi romanzi di più robusta validità che Mondadori
manderà in libreria a primavera con la prefazione di Geno Pampaloni.
‘Sai, i Meridiani sono dei classici: monumenti funebri alle grandi
firme: io sono il primo che entra vivo in questo cimitero’. E’ il
discorso che mi fa Marino tutte le volte che vado da lui a mischiare
dolce sugo di amicizia”. Don Francesco passa in rassegna tutta la
letteratura romagnola e la fotografa col flash della sua genialità. Così
fa il ritratto ad Antonio Beltramelli: “Tutta l’opera di Beltramelli
pare nata dalla stessa ispirazione, in un solo giorno. Stile o maniera
che sia, la sua pagina si riconoscerebbe fra mille. L’impressione è di
una ‘prosa’ voltata in ‘versi’ da un’altra lingua. Parte scalza e arriva
sui trampoli”.
Questo è don Francesco, grande voce di Romagna. E’ un vero peccato che
gli anni abbiano rubato l’inchiostro ad una delle penne più
significative della nostra letteratura. C’era molta gente, a fargli
festa, perfino il sindaco della città. E tanti, tanti amici che
sfilavano in processione davanti alla sedia a rotelle per carpire
qualche luce di ricordo nel suo sguardo. Ho visto don Francesco mentre i
suoi “angeli custodi” dell’Opera di Santa Teresa (la stessa “casa” dove
abita anche l’altro novantenne della nostra città, il cardinale Ersilio
Tonini) lo portavano via. E una rondine discreta è entrata nel mio cielo
con nel becco il ricordo di autunni lontani, quando mi recavo a Porto
Fuori per scambiare con don Francesco due chiacchiere letterarie accanto
al fuoco e davanti a un galantuomo bicchiere di Sangiovese per annegarci
dentro le calde castagne. Fuori la nebbia accarezzava la terra e l’acqua
del fiume portava al mare gli spenti sapori del giorno che si era appena
incenerito oltre il “resegone” nero delle case. Tempi lontani, sere
lontane. Come quella personalissima “sera” di don Francesco, che così
chiudeva un suo elzeviro: “Quanto a me, in pace ormai me ne torno alla
canonica lungo l’argine del fiume; l’acqua è viola, ed è la sera”.
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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