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Ecco perché si chiamano "numeri
verdi"
Penso
proprio di aver capito come mai certi numeri telefonici siano stati chiamati
“verdi”, un colore che non c’entra affatto con l’ecologia, ma credo che sia da
associare più realisticamente alla pigmentazione che assume l’utente quando gli
capita l’avventura (anzi, disavventura) di selezionarne uno.
Innanzitutto si diventa verdi perché questi numeri sono quasi sempre occupati
poi, dopo aver formulato il numero almeno un miliardo di volte, sei a contatto
con una voce anonima che recita gentilmente un ritornello del quale all’utente
non gliene frega proprio niente, a cominciare dall’untuoso benvenuto nel
servizio tal dei tali con tanto di sottofondo di musichetta e con una voce
suadente che ti fa presente che la chiamata non ha scatti alla risposta e che
dal telefono fisso ti costa tot centesimi di euro al minuto. Poi, dopo tutto
questo bla bla, arriva finalmente la notizia che se vuoi un certo servizio devi
digitare “uno”, se ne vuoi un altro “due” e così via. Ma come ti capita di
digitare uno di questi numeri suggeriti ecco arrivare un’altra cascata di
notizie più o meno simile a quella già ascoltata dieci secondi prima, ma
insomma, dico io, è mai possibile che non si possa parlare con un essere umano?
E se volessi protestare vivacemente?
Propongo di istituire un servizio reclami ma credo che, ancorché l’idea sia da
considerare buona, scommetto che sarà realizzata senz’altro in maniera pessima.
Proviamo ad immaginare. Un utente
imbufalito e già verde per conto suo per un certo disservizio formula il numero
indicato e dopo gli interminabili bla bla e le notizie sulla bella giornata di
sole si sente indicare dall’altra parte i numeri da digitare, con la voce
anonima e gentile che potrebbe dire frasi di questo genere “se desidera una
semplice protesta digiti 1” oppure “se desidera una protesta con parolacce
digiti 2”, “se oltre alle parolacce desidera augurare un accidente finale digiti
3” o ancora “se augura al direttore del servizio una infermità deve specificarne
il tipo digiti 4 se la intende passeggera, digiti 5 se la intende
invece permanente”…
Cosa ne dite?
Grottesco ma credo sempre più probabile.
All’inizio degli anni Sessanta la grande Mina lanciò un motivetto allegro che si
chiamava “Bum ahi (che colpo di luna!)”. Evidentemente la tigre di Cremona (che
poi era di Busto Arsizio, e allora vi immaginate chiamare Mina “la tigre di
Busto Arsizio”? non se ne parla nemmeno) dunque la “tigre” aveva un feeling
particolare con l’astro della notte perché due anni prima, nel 1959, aveva
interpretato “Tintarella di luna”, la ricordate? “Tintarella di luna, tintarella
color latte, che fa bianca la tua pelle, ti fa bella fra le belle, e se c’è la
luna piena, tu-u, diventi pallida…”, ma poi cantò anche “Uno spicchio
di luna” (retro del più famoso “Due note”, sigla della trasmissione del sabato
sera Canzonissima), “Un piccolo raggio di luna” e “La luna e il cow boy”,
insomma tutto questo per dire che la Luna entrava spesso nel repertorio
“miniano” (si può dire?). E dunque, per rientrare nel seminato, nella canzone
dedicata al colpo di luna la protagonista, che evidentemente si era esposto un
po’ troppo alle radiazioni lunari, abbraccia una pompa di benzina e la chiama
Arturo, un fatto stranissimo per l’epoca mentre adesso bisogna che ci abituiamo
a conversare con queste pompe, perché ormai sta per finire l’epoca del vecchio
distributore che ti riempiva il serbatoio e che in tempi passati ti puliva pure
il parabrezza, mentre adesso se dimentichi di chiederglielo te ne vai via con il
vetro sporco di moscerini, questo è poco ma sicuro.
Sono queste le comodità del progresso e della automazione? Mah. Nutro una forte
idiosincrasia nei confronti dei meccanismi del progresso (nonostante la mia
laurea in fisica che autorizza chi non mi
conosce a pensare a me come a un soggetto di particolari abilità tecniche) e
cerco sempre di evitare i “self service” della benzina. Quella volta, però, ero
proprio alle strette e per evitare lo spauracchio di tornare a casa a piedi ho
dovuto cimentarmi con uno di questi “Arturi”. Grande, vi confesso, è stata la
mia soddisfazione quando l’”Arturo” si è messo a funzionare per davvero. Lo
avrei abbracciato come aveva fatto Mina nella canzone, ma le gioie, ahimè, non
sono mai piene e in effetti, per la legge di Murphy, mentre me ne stavo tutto
allegro con la pistola della pompa in mano mi sono accorto che avevo
parcheggiato l’auto troppo distante e che il tubo di gomma risultava
insufficiente e solo un miracolo ha fatto sì che non annegassi ignobilmente
dentro a uno stramaledetto mare di benzina. Verde anche lei, si capisce, come i
numeri di telefono che ho ricordato all’inizio.
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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