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Ravenna, 6 febbraio 2005


di memoria, cultura e molto altro...

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Ecco perché si chiamano "numeri verdi"

Penso proprio di aver capito come mai certi numeri telefonici siano stati chiamati “verdi”, un colore che non c’entra affatto con l’ecologia, ma credo che sia da associare più realisticamente alla pigmentazione che assume l’utente quando gli capita l’avventura (anzi, disavventura) di selezionarne uno.
Innanzitutto si diventa verdi perché questi numeri sono quasi sempre occupati poi, dopo aver formulato il numero almeno un miliardo di volte, sei a contatto con una voce anonima che recita gentilmente un ritornello del quale all’utente non gliene frega proprio niente, a cominciare dall’untuoso benvenuto nel servizio tal dei tali con tanto di sottofondo di musichetta e con una voce suadente che ti fa presente che la chiamata non ha scatti alla risposta e che dal telefono fisso ti costa tot centesimi di euro al minuto. Poi, dopo tutto questo bla bla, arriva finalmente la notizia che se vuoi un certo servizio devi digitare “uno”, se ne vuoi un altro “due” e così via. Ma come ti capita di digitare uno di questi numeri suggeriti ecco arrivare un’altra cascata di notizie più o meno simile a quella già ascoltata dieci secondi prima, ma insomma, dico io, è mai possibile che non si possa parlare con un essere umano?
E se volessi protestare vivacemente?
Propongo di istituire un servizio reclami ma credo che, ancorché l’idea sia da considerare buona, scommetto che sarà realizzata senz’altro in maniera pessima. Proviamo ad immaginare. Un utente imbufalito e già verde per conto suo per un certo disservizio formula il numero indicato e dopo gli interminabili bla bla e le notizie sulla bella giornata di sole si sente indicare dall’altra parte i numeri da digitare, con la voce anonima e gentile che potrebbe dire frasi di questo genere “se desidera una semplice protesta digiti 1” oppure “se desidera una protesta con parolacce digiti 2”, “se oltre alle parolacce desidera augurare un accidente finale digiti 3” o ancora “se augura al direttore del servizio una infermità deve specificarne il tipo digiti 4 se la intende passeggera, digiti 5 se la intende invece permanente”…
Cosa ne dite?
Grottesco ma credo sempre più probabile.
All’inizio degli anni Sessanta la grande Mina lanciò un motivetto allegro che si chiamava “Bum ahi (che colpo di luna!)”. Evidentemente la tigre di Cremona (che poi era di Busto Arsizio, e allora vi immaginate chiamare Mina “la tigre di Busto Arsizio”? non se ne parla nemmeno) dunque la “tigre” aveva un feeling particolare con l’astro della notte perché due anni prima, nel 1959, aveva interpretato “Tintarella di luna”, la ricordate? “Tintarella di luna, tintarella color latte, che fa bianca la tua pelle, ti fa bella fra le belle, e se c’è la luna piena, tu-u, diventi pallida…”, ma poi cantò anche “Uno spicchio di luna” (retro del più famoso “Due note”, sigla della trasmissione del sabato sera Canzonissima), “Un piccolo raggio di luna” e “La luna e il cow boy”, insomma tutto questo per dire che la Luna entrava spesso nel repertorio “miniano” (si può dire?). E dunque, per rientrare nel seminato, nella canzone dedicata al colpo di luna la protagonista, che evidentemente si era esposto un po’ troppo alle radiazioni lunari, abbraccia una pompa di benzina e la chiama Arturo, un fatto stranissimo per l’epoca mentre adesso bisogna che ci abituiamo a conversare con queste pompe, perché ormai sta per finire l’epoca del vecchio distributore che ti riempiva il serbatoio e che in tempi passati ti puliva pure il parabrezza, mentre adesso se dimentichi di chiederglielo te ne vai via con il vetro sporco di moscerini, questo è poco ma sicuro.
Sono queste le comodità del progresso e della automazione? Mah. Nutro una forte idiosincrasia nei confronti dei meccanismi del progresso (nonostante la mia laurea in fisica che autorizza chi non mi conosce a pensare a me come a un soggetto di particolari abilità tecniche) e cerco sempre di evitare i “self service” della benzina. Quella volta, però, ero proprio alle strette e per evitare lo spauracchio di tornare a casa a piedi ho dovuto cimentarmi con uno di questi “Arturi”. Grande, vi confesso, è stata la mia soddisfazione quando l’”Arturo” si è messo a funzionare per davvero. Lo avrei abbracciato come aveva fatto Mina nella canzone, ma le gioie, ahimè, non sono mai piene e in effetti, per la legge di Murphy, mentre me ne stavo tutto allegro con la pistola della pompa in mano mi sono accorto che avevo parcheggiato l’auto troppo distante e che il tubo di gomma risultava insufficiente e solo un miracolo ha fatto sì che non annegassi ignobilmente dentro a uno stramaledetto mare di benzina. Verde anche lei, si capisce, come i numeri di telefono che ho ricordato all’inizio.

Franco Gàbici


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Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002) .


 

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