Non è più tempo di pensare ai gabbiani che accarezzano l’acqua, alle vite che balenano in burrasca e al triste incedere dell’autunno. Siamo in fase di acuta “prosificazione” e non c’è più posto per la poesia, merce d’altri tempi. Una roba che sa di muffa insomma. E invece…
Queste tristi considerazioni mi vengono spontanee pensando al cinquantenario della morte di Vincenzo Cardarelli, di professione poeta, perché da quel che mi risulta sembra che quasi nessuno si sia dato pena di ricordarlo. I grandi quotidiani intendo dire. Almeno quelli che seguo io. Solamente il Centro studi e ricerche “Francesco Grisi” ha pubblicato un volume dal titolo “La nostalgia, i ritorni, i luoghi e gli amori. Vincenzo Cardarelli Un poeta per non perdersi”.
Mi piace Cardarelli perché i suoi versi vanno dritti al cuore e ti scuotono tutto. Io potrei leggere cento volte “Gabbiani” o “Autunno” senza stancarmi mai e provando sempre le stesse emozioni. Un lungo brivido blu che solamente i poeti, quelli veri, sanno indurre. Cardarelli non è uno di quei poeti che scrivono versi incomprensibili e sembra proprio che non si preoccupi affatto se la gente lo capisce. Anzi. Gesualdo Bufalino disse una volta: “Scrivo poesie che si capiscono e forse per questo devo sembrare un cavernicolo”. Anche Cardarelli, dunque, apparteneva alla gloriosa categoria dei cavernicoli. E cavernicolo un po’ lo doveva sembrare se una volta Dario Cecchi disse a Orio Vergani che Cardarelli quando se ne stava seduto al sole nei caffè di Via Veneto a Roma sembrava uno scendiletto spelacchiato esposto su una ringhiera. Aveva sempre addosso una quantità incredibile di gilè e temeva le correnti d’aria.
Quando gli conferirono il premio delle Nove Muse fu condannato a un viaggio a Napoli e lui anziché essere felice era tutto arrabbiato perché nella stanza d’albergo nessuno aveva provveduto a fargli trovare una stufa accesa e inoltre tormentava i suoi vicini perché voleva avere la garanzia che l’indomani una macchina lo avrebbe riportato a Roma. Giunto al Palazzo Reale, sede della cerimonia, al poeta scappa la pipì e deve assolutamente trovare un bagno. Ne trovano quattro, in fondo a interminabili corridoi, ma tre sono senza luce a dimostrazione che in Italia non funziona proprio niente, a cominciare dai cessi. E a Cardarelli, che fino a quel momento non aveva fatto altro che brontolare, scappa questa imprecazione, poco poetica ma molto efficace: “Questi napoletani costruiscono regge, chiamano qui poeti per distribuire milioni, e non pensano a chi, invece, deve pisciare!”. Orio Vergani, che lo accompagnava, teme che da quella frase del poeta possa nascere un incidente diplomatico. E invece poi tutto fila liscio, con il poeta che sopporta la cerimonia seduto su una poltrona dorata avvolto nel suo paletò e col cappello in testa. La sua unica preoccupazione erano le finestre aperte e le correnti d’aria.
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E proprio novant’anni fa Cardarelli dava vita a “La Ronda”. Oggi la gente conosce solamente le “ronde” padane o non padane e non pensa di certo che questo poeta a poco più di trent’anni aveva fondato questa rivista per vegliare sul bello stile e per scrivere cose egregie. L’ufficio della rivista era nei pressi dell’Altare della Patria e Cardarelli era particolarmente felice della sua creatura. Aveva come modello Leopardi, e scusate se è poco.
Risalgono a questo periodo le sue prose migliori, sì perché Cardarelli non fu solamente poeta, ma aveva cominciato come correttore di bozze e poi giornalista al quotidiano “Avanti!” diretto allora da Leonida Bissolati. Faceva il critico teatrale con lo pseudonimo “Simonetto” e aveva riunito in un volumetto dal titolo “Terra genitrice” le sue prose che più avanti quel geniaccio di Leo Longanesi ripubblicò cambiano il titolo in “Il sole a picco”. Con “Il sole a picco” vinse il Premio Bagutta.
Cardarelli fu anche per qualche tempo direttore della mitica “Fiera letteraria” che gli garantiva pure un piccolo stipendio. Ma lui, il poeta, restava chiuso nelle sue solitudini e a Roma, in piena estate, si difendeva dallo scirocco indossando tre cappotti. Incantava gli amici con la sua parola e per questo si era guadagnato il soprannome “l’incantatore dei serpenti”.
Ma Cardarelli è e sarà sempre il poeta. Orio Vergani arrossì quando nel novembre del 1950 vide Cardarelli sfamarsi con un piatto di pasta e fagioli e ricordando quell’incontro scrisse queste considerazioni: “Io non so se Cardarelli sia veramente un grande poeta: anche se non sarà riconosciuto come tale, tale io l’ho creduto e per il mio cuore questa è la cosa importante…”.
Faccio mie le parole di Vergani e penso ai gabbiani, all’incedere dell’autunno e alla sua lentezza indicibile. E provo ancora, come sempre, una grande ammirazione per questo personaggio scontroso e solitario e sempre in conflitto con la vita. “La vita – ebbe a dire una volta – io l’ho castigata vivendola”. Il giusto castigo per chi ha sempre vissuto “balenando in burrasca”.
Franco Gàbici
Gli aneddoti raccontati sono tratti dal bel volume di Orio Vergani “Misure del tempo. Diario 1950-1959” a cura di Nico Naldini e edito da Leonardo nel 1990.
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(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è stato dal 1985 al 2008 direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno - Avvenire. E' direttore responsabile della rivista Gnomonica e redattore di Nuova Civiltà delle Macchine. Presidente del comitato ravennate della "Dante Alighieri" è autore di numerosi saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002; SeBook, 2004), "Buon Compleanno,ONLY YOU!" (Simonelli Editore, SeBook, 2005), Una Canzone al Giorno" (Simonelli Editore, 2007).