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200 Ravenna, 20 Giugno 2006
Dimenticate il
calcio: c'è la corsa più pazza del mondo...
Per la mia duecentesima “Bollicina” vi
invito tutti quanti (ma quanti? [circa 2000 la settimana,
nde]) ad assistere alla corsa più pazza del
mondo. Sono in gara, infatti, “pié veloce” Achille e la lenta tartaruga.
Si tratta ovviamente di una corsa ad handicap, nel senso che i
concorrenti non partono sulla stessa linea perché alla tartaruga si
concede un vantaggio.
Cronista di questa corsa strampalata è Zenone di Elea, di professione
filosofo, che prima di dare il via alla gara spiega a quanti hanno
pagato il biglietto che assisteranno a una truffa colossale perché
l’ovvio pronostico sarà sovvertito.
Achille, infatti, a dispetto del suo essere “piè veloce”, non
raggiungerà mai il loricato animale. E se non ci credete, state a
vedere.
Pronti? Via! Con quattro salti Achille, invece, sorpassa la tartaruga e
si aggiudica la gara. Dagli spalti piovono fischi e il povero Zenone è
costretto a uscire dalla solita porta secondaria dello stadio per
evitare il linciaggio della folla inferocita. Eppure, pensa Zenone, il
mio ragionamento non fa una grinza. Achille, infatti, prima di
raggiungere la tartaruga, avrebbe dovuto percorrere la metà del tragitto
e poi la metà della metà e poi la metà della metà della metà e così via.
Insomma, avrebbe dovuto attraversare una serie infinita di percorsi e per
percorrere una serie infinita di intervalli occorre un tempo infinito.
Chiaro? Mica tanto.
L’errore di Zenone sta proprio in questo ragionamento, ma del resto non
poteva sapere che secoli dopo avrebbero inventato l’analisi
infinitesimale. Quella contemplata da Zenone, infatti, è sì una serie
infinita di termini, ma trattandosi di una serie “convergente” la somma
è 1. Ciò vuol dire che alla serie, per quanto lunga essa sia, puoi
sempre aggiungere un termine e facendo la somma ti avvicini sempre più a
“uno”. E dunque non è vero che la somma di infiniti termini abbia come
risultato un “infinito”. E dunque Achille raggiungerà e sorpasserà la
tartaruga.
A questo punto voi mi direte cosa c’entri l’infinito. E invece c’entra,
c’entra eccome. Basta dare uno sguardo al calendario e fermarsi sulla
data del 14 giugno, giorno in cui centosettanta anni fa moriva Giacomo
Leopardi. Era infatti il 14 giugno del 1836. Ma centocinquanta anni
dopo, il 14 giugno 1986, moriva Jorge Luis Borges. E Leopardi e Borges
sono accomunati dal profondo senso dell’infinito e Borges ha anche
scritto alcune considerazioni proprio su questa faccenda di Achille e la
tartaruga, nota fin dai tempi del liceo come uno dei famosi “paradossi”
di Zenone. E dentro al paradosso c’è l’infinito.
Ricordo che il mio primo incontro ravvicinato con questi “paradossi”
avvenne al liceo, classe terza A, c’era frenesia in quella lunga estate
del 1959 perché l’autunno avrebbe portato nel nostro piano di studio
materie nuove, la fisica e soprattutto la filosofia, materie che ti
facevano sentire proprio un liceale in piena regola e poi questa
filosofia non era niente male coi Greci che si indaffaravano a cercare
l’arché (il principio di tutte le cose) e così partiva Talete con
l’acqua ed era vero, ma poi arrivava Anassimene con l’aria e aveva
ragione anche lui, ma allora stai a vedere che in filosofia hanno
ragione tutti quanti e mentre ti stavi convincendo di tutto questo
arriva Anassimandro che ti cava fuori l’apeiron e poi via via arriva
tutta l’altra combriccola che comprende Eraclito e Parmenide e poi
questo Zenone coi suoi paradossi che fanno proprio ridere. Oh sì. Questi
filosofi non dovevano avere tutte le rotelle a posto. E invece Borges
sarebbe rimasto affascinato dai paradossi zenoniani che esprimono la sua
“inquietudine filosofica”, una “inquietudine” che, come scrive nel
prologo a “L’oro delle Tigri”, “mi appartiene dall’infanzia, da quando
mio padre mi rivelò, con l’ausilio di una scacchiera (che era, ricordo,
di cedro) la corsa di Achille e della tartaruga”.
Da giovane, ahimè, le inquietudini non albergavano ancora nel mio cuore
e, se proprio lo volete sapere, gli scacchi mi davano l’idea di un gioco
troppo complicato e macchinoso. Noioso anche. Ma forse già fin d’allora
intuivo, senza saperlo, il gioco complicato della vita che si celava
dietro ad ogni pezzo sulla scacchiera.
Ma Borges è Borges e infatti sulla divisione all’infinito dei segmenti
anziché pensare che Zenone avesse le rotelle fuori rotaia, scrive:
“Quella decomposizione, accade mediante la sola parola infinito, parola
(e poi concetto) di spavento che abbiamo generato temerariamente e che
una volta ammessa in un pensiero, esplode e lo uccide”. Lo “spavento” di
Borges è il “naufragar” di Leopardi. E’ “dolce”, ma è pur sempre un
“naufragar”.
Borges, l’infinito e la Luna. La Luna!
E la Luna è di Leopardi, come giustamente disse Italo Calvino, ma è
anche di Borges, così come sono di questo straordinario scrittore
argentino i labirinti e gli specchi.
Alcune sere fa, rientrando a casa, ammiravo la Luna piena sospesa sul
grande mistero del mondo. Sentite cosa scrive Borges:
C’è tanta solitudine in quell’oro.
La luna delle notti non è la luna
che il primo Adamo vide. I lunghi secoli
dell’umano vegliare l’han colmata
d’antico pianto. Guardala. E’ il tuo specchio.
Ma oggi la gente non guarda la Luna, tutta indaffarata com’è a seguire
alla tivù i mondiali di calcio.
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
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