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Ravenna, 16 settembre 2005

Aveva ragione Koestler:  
una voragine separa la scienza dall'umanesimo

  Alla nostra beneamata cultura la scienza interessa poco o niente. Sì, d’accordo, tutti sono unanimi nell’affermare che la scienza sia una impresa della quale oggi non si possa più fare a meno e attorno a questi temi, magari, si ricamano tanti bei “bla bla”, ma alla fine della fiera agli intellettuali umanistici che affermano di amare la scienza cresce in realtà un naso lungo quanto quello di Pinocchio che rivela palesemente di che pelo son fatti. E se non ci credete, meditate intorno al recente centenario della nascita di Arthur Koestler, l’autore di "Buio a mezzogiorno". L’inserto domenicale del “Sole 24Ore” ha dedicato a Koestler una intera pagina cogliendo anche l’occasione di parlare della ristampa del libro “Schiuma di terra” (Il Mulino) a cura Di Ugo Berti Arnoaldi. Alcuni giorni fa ho letto invece un articolo sul “Resto del Carlino” a firma di Cesare Sughi. Bene. Né il “Sole” né il “Carlino” hanno ricordato che Koestler a un certo punto della sua vita si stufò di parlare solamente di politica e di comunismo per dedicarsi alla filosofia e in particolare alla filosofia della scienza. E lo ha fatto, dobbiamo ammetterlo, in maniera egregia, come sta a dimostrare quel bellissimo saggio "I Sonnambuli", ristampato nel 1990 con una dottissima (e non poteva essere diversamente) prefazione di Giulio Giorello.
   I “Sonnambuli” uscirono giusto cinquant’anni fa, nel 1955, e fin dalla prefazione Koestler cacciò il dito nella piaga. Sentite cosa scrive: “Nell’indice analitico delle seicento e più pagine di La storia, saggio di interpretazione di Arnold Toynbee, versione ridotta, il lettore cercherebbe invano i nomi di Copernico, Galileo, Cartesio, Newton. E’ questo un esempio tra i tanti che può bastare ad indicare la voragine che ancora separa le scienze umane dalla filosofia della natura”.
Koestler aveva visto giusto. E’ proprio una “voragine” ciò che separa la scienza dall’umanesimo! E siamo solamente nel 1955. Di lì a qualche anno Percy Snow dava alle stampe la sua famosissima conferenza “Le due culture” che negli anni Sessanta uscì anche in Italia grazie a Ludovico Geymonat, l’indimenticato padre della epistemologia italiana che ho avuto il piacere di conoscere personalmente e che poco prima di morire venne a visitare anche il mio Planetario. Si è tanto parlato di queste “due culture”, ma di fatto in Italia di cultura ne esiste una sola, ed è quella umanistica. Ed è cultura egemone, che fa da cassa di risonanza ad eventi che appartengono solamente a una parrocchia. E credo che non ci sia niente da fare e che noi “scienziati” dovremo ahinoi soccombere.
L’esempio di Koestler è illuminante, il Koestler del “Buio a mezzogiorno” che nelle primissime pagine ha precisi riferimenti stellari: La neve aveva uno scintillio giallastro alla doppia luce della luna e delle lampade elettriche… L’alba non era ancora sorta; le stelle brillavano ancora lucenti e gelide… sopra la torretta della mitragliatrice il prigioniero vide una striscia della Via Lattea…
Ma al di là d questi riferimenti astronomici, che magari in se e per sé non dicono nulla, quello che voglio dire è che la cultura unica è una cultura monca, è come un gabbiano con un’ala sola che remiga a fatica in una sola direzione. Con due ali, invece, si spazia di più e, come indica Giorello nella sua prefazione, si possono fare interessanti paragoni fra questo saggio e la sua opera più famosa. Là ­ scrive Giorello, intendendo con “là” il Buio a mezzogiorno ­ “i veri bolscevichi hanno il dovere di ‘punire le idee errate come gli altri puniscono i delitti’ ­ del resto, se il Partito è tutto, ‘il ramo che si stacca dall’albero deve seccarsi, morire’. Qui ­ dove “qui” va inteso I Sonnambuli ­ Galileo, convocato nell’ottobre 1632, si sente chiedere ‘al primo interrogatorio’, il 12 aprile 1633, ‘se indovina per quali motivi era stato chiamato’, sperimentando così quella che diventerà, tre secoli dopo, ‘la procedura normale della polizia di stato sovietica’. Galileo ­ non troppo diversamente dal Rubasciov del Buio a mezzogiorno ­ si inginocchierà a leggere l’abiura”.
   E poi, guarda caso, quest’anno cade il centenario della nascita di Percy Snow (15 ottobre 1905) e la circostanza magari passerà sotto silenzio. In compenso, però, in questi giorni si parla parecchio del concorso di miss Italia e della grande rivoluzione di cui si fa veicolo perché, se non lo sapete, accanto alla rivoluzione copernicana oggi c’è una rivoluzione dell’ombelico (sembra, infatti, che la grande novità di quest’anno sia la sfilata in due pezzi, con ovvio ombelico allo scoperto). Koestler scrive che il cervello umano dal punto di vista anatomico sia rimasto tale e quale da almeno centomila anni e giustifica il “progresso a sbalzi e fondamentalmente irrazionale del sapere” al fatto “che l’evoluzione ha dotato l’homo sapiens di un organo di cui non poteva servirsi in modo idoneo. I neurologi (sic. Ma non si diceva “neurologi”?) calcolano che perfino allo stato attuale utilizziamo solo il due o il tre per cento del potenziale dei ‘circuiti’ di quest’organo”.
   Aggiungo io che dopo avere assistito a certi programmi televisivi vien da pensare che il potenziale usato sia solamente dello 0.005 per cento e che il tutto sia da imputare al grandissimo rispetto che ha la gente per il proprio cervello. Questa gente tiene talmente tanto a quest’organo che per timore di sciuparlo non lo usa nemmeno. E le conseguenze sono davanti agli occhi di tutti. Il che, con buona pace di Giovannino Guareschi, è bello e istruttivo.

  Franco Gàbici

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Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002) .

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