Il ministro Sirchia
doveva scegliere un altro periodo per fare entrare in vigore le restrizioni
contro il popolo dei fumatori. Mi vengono in mente queste considerazioni perché
vedo, in questi giorni freddissimi, moltissima gente che se ne sta fuori dai bar
o dai ristoranti a prendere una boccata d’aria malsana fatta di nicotina,
catrame, monossido di carbonio e poi ancora di acetone, ammoniaca, formaldeide,
arsenico, metanolo, butano, benzene, monossido di carbonio insomma aria
purissima con la quale inaliamo i nostri poveri polmoni e adesso i fumatori sono
costretti a starsene fuori dai luoghi frequentati. Se la legge fosse entrata in
vigore in primavera l’impatto sarebbe stato sicuramente più dolce e la gente non
si sarebbe buscata una polmonite di stagione. Ma tant’è. E poi non sono poche le
persone che hanno colto questa occasione per smettere una buona volta con il
fumo, perché fa male alla salute e anche alla tasca si capisce e ci sono quelli
che ci si mettono di buzzo buono ad acquistare pasticche e cerotti fino a quando
non si accorgono che l’unico cerotto antifumo è quello da applicarsi sulle
labbra per impedire di aprirle, ma la pubblicità ti bombarda di suggerimenti e
la gente ci casca e difficilmente crede che avrebbe smesso di fumare anche senza
cerotto, ma adesso è meglio che la pianti con questi discorsi sennò mi inimico
la classe dei farmacisti e io non ne ho nessunissima intenzione anche perché ho
moltissimi amici farmacisti e poi io ero partito dal divieto Sirchia e lo avevo
associato a questo freddissimo inverno che non ne vuol sapere di lasciare il
passo alla primavera che sicuramente verrà e pensando a questo freddo cagnone
vorrei ricordarvi che «Il diario di un parroco di campagna»
di Nicola Lisi,
scrittore e geometra (anzi “agrimensore”, perché a quei tempi si diceva così),
inizia con un capitolo che è proprio intitolato “Anno del freddo” e se parlo di
Lisi è perché quest’anno cadono i trent’anni della morte, è morto a Firenze nel
novembre del 1975 (era nato a Scarperia nel 1893, proprio come Gadda, a
proposito, avete mica letto il mio Dolore della cognizione?) e io ne parlo
adesso anche perché penso di essere l’unico, ancorché non letterato, che lo
ricorderà e in questi giorni sto pure leggendo questo diario e devo dire che è
una lettura che porta indietro a tempi lontani quando la gente non è che se la
spassasse poi troppo bene, almeno a sentire questo parroco di campagna che
scrive “qui in campagna ceniamo a giorno per risparmio della luce”.
A quei tempi
non c’era di certo pericolo dell’inquinamento luminoso e il cielo era davvero
quella cosa splendida che è, si poteva ammirare e lui lo guardava spesso e aveva
pure la fortuna di avere un cielo sulla testa e un altro sotto ai piedi perché
descrive anche campi abbelliti dalle lucciole che così brulicanti sul grano
sembrano tante stelle cadute a terra. Dolcissime sono le pagine che descrivono
l’attesa della primavera e credo che la lettura di questo Diario possa indurre
serenità e il rimpianto di cose perdute, anche se sotto sotto non è che
rimpiangiamo niente e scommetto che se ci condannassero a vivere come il curato
di Nicola Lisi non saremmo affatto felici e che la frase “si stava meglio quando
si stava peggio” è una baggianata di quelle grandi così, son cose che si dicono
così, tanto per non perder la sana abitudine di lamentarsi di tutti e di tutto.
Il Diario di Lisi però dovrebbe essere confrontato con quello di George Bernanos,
che scrisse un diario di un curato, anche se i confronti con la letteratura
straniera sono sempre pericolosi, io ricordo che lessi le Ultime lettere di
Jacopo Ortis e mi piacquero assai, con quell’incipit “il sacrificio della patria
nostra è consumato” che ti fa accapponare la pelle quasi come l’inno di Mameli,
ma poi lessi i Dolori del giovane Werther di Goethe ed erano tutt’un’altra cosa,
con le sue profondissime riflessioni, i suoi romantici furori: “quante volte ho
anelato a giungere, con le ali di una gru che volava sopra di me, fino alla
sponda di quel mare immenso per bere la turgida voluttà della vita dalla
spumeggiante coppa dell’Infinito!” e quel suo senso della distruzione che vede
nascosta in ogni cosa: “Ah, non sono le grandi e rare sventure del mondo, le
inondazioni, i terremoti che inghiottiscono le nostre città, quelli che mi
commuovono! Ciò che mi logora il cuore è la forza distruggitrice che si cela nel
tutto della natura, la quale non ha creato cosa che, a sua volta, non abbia
distrutto ciò che le è vicino, e se stessa. Perciò vacillo nell’angoscia.
Intorno a me sono il cielo e la terra e le loro operanti energie! Nulla io vedo,
se non un mostro che eternamente divora ed eternamente rumina”. Un modo elegante
e poetico per formulare il principio di conservazione dell’energia, quell’energia
che è uguale al prodotto della massa per il quadrato della velocità della luce,
E = mc2, una delle equazioni più famose della fisica (sapete perché la velocità
della luce è indicata con “c”? Quella “c” sta per “celeritas”), la dobbiamo ad
Albert Einstein del quale quest’anno ricorrono i cinquant’anni della morte
(1955) e i cento anni della Relatività ristretta (1905) sentiremo molto parlare
di lui in questo 2005 dichiarato “anno mondiale della fisica” e quando mi trovo
davanti ad una platea di ragazzi chiedo sempre loro: “Lo sapete che questo è
l’anno della fisica?”. Risposta: “No”. Ma io non demordo e, fino a pochi giorni
fa, chiedevo: “Lo sapete che fra qualche giorno inizierà il Festival di San
Remo?”. Risposta: “Sì!”. Il che è bello e, come diceva Giovannino Guareschi,
(poco) istruttivo!
Franco Gàbici
Le citazione di Goethe sono tratte da “I dolori del giovane Werther”, a cura di
Carlo Picchio (Mursia, 1966).
|
|
|