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San Remo non lo guarderò proprio
...ma un'occhiata ai protagonisti l'ho data, soprattutto
nel settore "classic"
Qua, ragazzi, ti tirano per i capelli e ti costringono a parlare di San
Remo ancorché controvoglia. Però San Remo è sempre San Remo, almeno così vanno
dicendo tutti i mass media, anche se a me di San Remo non me ne importa proprio
niente. Per me potrebbero eliminarlo dal palinsesto, non me ne accorgerei
nemmeno. Non lo guarderò mai e non lo dico per darmi delle arie. Vedo di peggio
(“Il processo del lunedì”, ad esempio) e poi non mi vergogno di dire che in
tempi passati seguivo “Beautiful” (poi diventato “Bruttiful”) e anche
“Incantesimo”, se proprio lo volete sapere. Adesso non guardo più gli
“scemeggiati” e mi limito a dare un’occhiata al quizzume che ogni buon
consumatore di televisione si trova nel piatto all’ora di cena. E dopo aver
seguito il gioco delle “scatole” condotto dal Bonòlis, adesso seguo quelle delle
“banane” condotto dalla Ventura e, sarà perché lo guardo senza applicarmi molto,
sarà perché dispongo di una intelligenza limitata, fatto sta che non sono mai
riuscito a capire il meccanismo né dell’uno né dell’altro gioco.
San Remo, comunque, non lo guarderò proprio, ma un’occhiata ai protagonisti l’ho
gettata, oh sì, soprattutto nel settore “classic” dove mi hanno colpito Nicola
Arigliano e Peppino di Capri. Nicola Arigliano, che probabilmente approderà
sulla spiaggia di San Remo direttamente dall’Arca di Noé, presenterà
“Colpevole”, un titolo che richiama alla memoria dei vecchi come me il suo
antico successo “Amorevole”, che faceva il paio con “I sing ammore”, tutti
incisi su dischi Columbia, la stessa etichetta che distribuiva Paul Anka, che
per noi giovani era tutt’un’altra cosa. Per una trentina d’anni, però, la sua
faccia fu associata alle turbe gastro intestinali che per fortuna potevano
essere debellate solamente da un famoso digestivo (si poteva ingerire anche
senza acqua!) ed ebbe una piccola parte anche nel film “La grande guerra” di
Mario Monicelli, accanto a Gassman e a Sordi. Nel film, quando il tenente
Gallina si presenta alla truppa preannunciando già tutti i giochi di parole che
potevano essere cuciti intorno al suo nome, il regista inquadra Nicola e questi
anziché reclamizzare il digestivo si esibisce in una imitazione del verso della
gallina. Nel 1964 partecipò anche a San Remo presentando un brano anomalo,
“Venti chilometri al giorno”, di Pino Massara e di un giovanissimo Mogol. Poi
nel 1966 si presentò al Premio Tenco e il suo cd “I sing ancora” ebbe un nuovo e
grande successo. Arigliano dunque ha ripreso a scalare l’impervia montagna delle
sette note e ricordo pure di aver letto recentemente
una sua intervista su “Lo Specchio” (l’inserto settimanale de “La Stampa”) e
devo dire che me lo ha rivelato assai simpatico e interessante. A più di ottant’anni
d’età Arigliano continua ad essere un grande.
L’altro grande vecchio è il Peppino (di Capri ovviamente), mio antichissimo
pallino nonché struggente colonna sonora dei miei beati anni liceali che canterà
a San Remo una canzone intitolata “La panchina”, un titolo che mi fa venire alla
mente una canzone di Gianni Meccia (quello de “Il pullover” e de “Il barattolo”)
che stava sul lato B de “L’ultima lettera”. Cito a memoria, ma son quasi certo
che la canzone si intitolasse “Dove c’era una volta” e iniziava così Dove c’era
una volta una panchina/dove allora mi sedevo con il mio amore/ora c’è un palazzo
grigio e tanta gente/che va indifferente/e non conosce niente di noi”. Era il
1962 e Meccia apriva il filone della canzone ecologica cantando il tema del
cemento che divorava erba e panchine e via via fino al celentaniano “Il ragazzo
della via Gluck”.
Ma la panchina di Meccia richiama in memoria una delle panchine più famose del
mondo, quella degli innamoratini di Peynet e il pensiero è quasi obbligatorio
visto che questa Bollicina spicca il volo nella giornata di San Valentino,
tradizionalmente considerato il patrono degli innamorati. Raymond Peynet è morto
alcuni anni fa e l’idea dei fidanzatini gli venne nel 1942. Raymond si trovava
nella stazione di Valence e vide un ragazzo che suonava il violino e una ragazza
lo stava ascoltando tutta estasiata. In genere le stazioni sono dei luoghi
stramaledettamente pidocchiosi e malinconici e le sale d’aspetto non invitano di
certo all’allegria. Penso alle mie partenze di giovane studente che mi recavo
settimanalmente all’Università di Ferrara e in certe mattine nebbiose mi faceva
tristezza la visione di suorine, di militari di leva e di qualche passeggero con
la valigia logora e legata con lo spago che in ogni stazione che si rispetti non
mancano mai. Mi rimbalzava nell’anima quell’”eco di tedio” indotto dal “lugubre
rintocco” dei ferrovieri che sbattevano le mazze per saggiare la consistenza dei
freni e pensando alla fauna viaggiatrice mi chiedevo anch’io, come Giosuè
Carducci, “dove e a che muove questa, che affrettasi a’ carri foschi, ravvolta e
tacita gente?”. Io, invece, sapevo benissimo dove sarei approdato. Ad ascoltar
lezioni su meccanica quantistica e onde elettromagnetiche, su relatività e
transistor… tempi lontani e avvolti nella nebbia del ricordo. La sbuffante
vaporiera mi ha portato lontano dalle
aule dei miei anni giovani. Oggi nelle stazioni non si vedono più militari e i
viaggiatori hanno moderne valige con le ruote. Ma i fidanzatini di Peynet sono
rimasti tali e quali, seduti su una panchina e sperduti nel dolce mare dei loro
teneri sguardi.
Buon San Valentino a tutti gli innamorati!
Franco Gàbici
I versi di Giosuè Carducci sono tratti da “Alla stazione in
una mattina
d’autunno” (Odi barbare).
Simonelli Editore consiglia di leggere:
Gadda - Il dolore della
cognizione di
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002) .
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