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di memoria, cultura e molto altro...      Ravenna, 19 Maggio 2008



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  Tra Matacotta, Esenin,
  Silone, Maccari
  e Flaiano

  Alla fine di aprile di trent'anni fa moriva Franco Matacotta e a questo punto mi verrebbe proprio da chiedervi alzi la mano chi lo conosce e infatti non mi sembra di vedere molte mani alzate, forse una laggiù o forse mi sbaglio e allora se non lo sapete ve lo dico io.
  Franco Matacotta è stato un poeta e giornalista e soprattutto un grande traduttore, ma siccome il gossip è una polvere fina che si intrufola dappertutto, quando si parla di Matacotta si parla della sua relazione con Sibilla Aleramo che fra l'altro, e questa aumenta il tasso di gustosità del pettegolezzo, aveva quarant'anni più di lui e siccome gossip chiama gossip non posso non tacere che anche il grande poeta contadino Esenin, o come diavolo si scrive, del quale Matacotta è stato traduttore, ebbe una relazione con Isadora Duncan, che non era una letterata bensì una ballerina e che aveva una ventina di anni più di lui.

Perché non capite “Una Canzone al Giorno”?
  Sto parlando, lo ammetto, come un giornalista da settimanale rosa, ma la cosa andava detta anche perché se non la dicevo qualcuno avrebbe potuto obiettare ma come, questo si mette a parlare di Matacotta e non sa nemmeno che se la faceva con la Sibilla e tanto per farvi sapere che certe cose le conosco anch'io vi dirò che la Aleramo a sua volta se la fece anche con il poeta Dino Campana che aveva dieci anni meno di lei e fu una relazione tempestosa, almeno a detta di chi è riuscito a mettere il naso in certe faccende, ma qui non è giusto continuare con il chiacchiericcio perché ognuno deve essere padrone della propria vita privata e non è giusto che uno vi ficchi il naso dentro alla ricerca di chissà che cosa.
Ritorniamo dunque al fatto che Matacotta è stato un traduttore straordinario di Esenin.
  Ve lo assicuro e se non ci credete fatevi recitare un passo del poemetto “Pugacev” da Walter Della Monica, che insieme a Toni Comello andava in giro per le piazze dell'Europa negli anni Cinquanta a recitare poesie nei "Trebbi poetici", e quando l'amico Walter declama Esenin vi assicuro che vi fa venire i brividi, gli ho anche suggerito di fare una registrazione perché è troppo coinvolgente.
  Dunque, questo Matacotta ha tradotto Esenin anche se Walter Della Monica preferisce la traduzione di Beniamino Dal Fabbro che è veramente una cosa fuori di testa, specialmente quando il poeta, morto suicida ad appena trent'anni alla fine di dicembre del 1925, urla in faccia alla morte il suo desiderio di vivere, "Io voglio vivere vivere vivere/vivere sino al male, sino al rimorso, sino alla noia/anche da ladro, da minatore, in qualunque umano inferno…". E invece va a finire che si appende ai tubi del riscaldamento dell'albergo dove si era andato a nascondere.
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     L'albergo si chiamava "Angleterre" ed era a Leningrado, se proprio lo volete sapere, e lui si impicca usando la cinghia della sua valigia. Una valigia che magari aveva acquistato qualche anno prima: era entrato in un negozio e gli avevano mostrato tante valige e lui sicuramente avrà detto prendo questa e il commesso probabilmente gli avrà detto sì prenda questa che ha anche la cinghia così la valigia non si apre e lei starà tranquillo. Invece, vai tu a sapere che proprio con quella cinghia si sarebbe appeso ai tubi dell'albergo per farla finita con la vita, quella vita che gli urlava dentro con tutta la rabbia disperata dei suoi trent'anni.
Ecco, io parlo di Matacotta e mi viene in mente Esenin e il suo "Pugacev" anche se non sono ben sicuro che si scriva proprio così: coi russi non si è mai tranquilli, con tutti quegli accenti che non sai mai come pronunciarli.
  Ma, a parte questo, il Matacotta era anche poeta e ha scritto belle cose, come quella poesia che inizia coi versi "Non chiamare per nome l'erba/non può risponderti" . Certo, che detta così potrebbe sembrare anche una bella stupidaggine, nessuno chiama l'erba e soprattutto nessuno pensa che l'erba possa rispondere. Ma i poeti sono speciali e se si mettono in testa di parlare con l'erba lo fanno e il fatto è che nessuno si stupisce. Insomma, per un poeta parlare con l'erba sembrerebbe la cosa più naturale del mondo mentre se io mi mettessi a parlare con l'erba mi spedirebbero sicuramente al manicomio, ecco la differenza fra il poeta e l'uomo normale. Il poeta può parlare con l'erba e una persona normale no. Accidenti, non è mica giusto. Ma il poeta va oltre e approfondisce il problema e scrive nei versi successivi che se l'erba non risponde è perché "è occupata cogli insetti di campo/per il trasporto dei semi", ecco perché l'erba non risponde, e alla fine dei versi conclude che se proprio vuoi parlare con l'erba "chiamala come fa il vento/colla carezza delle sue mani/o come l'acqua che passa/col suo spirito celeste" . Allora, dopo aver letto versi come questi, non ti stupisci se un poeta si mette a parlare con l'erba e nessuno gli dia del matto.
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  Così, dunque, scriveva Franco Matacotta, poeta dimenticato e pure scrittore. Ha pubblicato anche un romanzo dal titolo "La lepre bianca" che però non ho letto - mica si può leggere tutto, però non è detto che un giorno non lo legga - e una raccolta di versi intitolati "Versi copernicani" e siccome c'è di mezzo Copernico la faccenda mi intriga assai.
  Sono versi che risalgono al 1957 quando in cielo volteggiava lo Sputnik che decretava la supremazia dell'Urss su tutto il mondo, almeno in materia di imprese spaziali, però l'anno prima, nel Cinquantasei, in Ungheria l'avevano fatta proprio grossa e molti intellettuali comunisti cominciarono a pensare che certe cose non era bene che venissero fatte e forse quell'aggettivo "copernicano" sta proprio a significare una rivoluzione nel modo di considerare le cose. Ma questi sono pensieri miei e magari non sono nemmeno veri, sta di fatto però che dopo il Cinquantasei molti compagni strapparono la tessera e lo fece anche Ignazio Silone, che moriva anche lui trent'anni fa e voglio vedere se qualcuno lo ricorderà. Lui si chiamava Secondo Tranquilli ed è stato un grande, però ha parlato male dei comunisti e oggi non si può parlar male dei comunisti sennò poi passi per disfattista o, peggio, per un fascista anche se Mino Maccari diceva che, stringi stringi, i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti veri e propri e gli antifascisti.
  Molti antifascisti se la sono presa. Mica puoi dire del fascista a un antifascista. E invece Maccari lo disse. Per la verità disse tante altre cose. Ennio Flaiano, ad esempio, nel suo “Diario notturno”, lo ricorda così: «Mi si avvicina Mino Maccari e mi dice: "Ho poche idee, ma confuse"».
  E la frase è entrata nella storia

Franco Gàbici
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Franco Gàbici (Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno - Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri". Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002; SeBook, 2004), "Buon Compleanno,ONLY YOU!" (Simonelli Editore, SeBook, 2005), Una Canzone al Giorno" (Simonelli Editore, 2007).



 


Franco Gabici

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