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203 Ravenna,
17 luglio 2006
Ah, June Allison!
Se avessi potuto me la
sarei sposata
Non so se la pensiate così anche voi, ma
con questi campioni del mondo delle pedate non se ne può veramente più.
D’accordo che il calcio sia considerato lo sport nazionale, ma cerchiamo
di riportare l’evento nell’alveo delle imprese terrene e poi, per
favore, lasciamo stare tutta quella retorica di bassa lega che vorrebbe
far passare questi giovanotti in mutande i portatori sani dei veri
valori ai quali la gente deve uniformarsi (avete notato l’annunciato
maxi esodo di quanti, sentendo puzza di bruciato per via del calcio
scommesse, se ne vanno a cercare altre maglie? E il valore dello sport?
E l’attaccamento alla maglia? Io parlerei di attaccamento ai
quattrinazzi…). E poi, per favore, lasciamo stare questa storia del
“gruppo”! E pensiamo piuttosto che se siamo campioni del mondo non è
certo perché abbiamo giocato bene, ma perché abbiamo battuto l’Australia
(e dico Australia, un paese dove pensavo che il calcio non esistesse
nemmeno) all’ultimissimo minuto grazie a un rigore che ci è stato
regalato forse un po’ troppo generosamente dall’arbitro. Ricordiamoci
che abbiamo battuto l’Ucraina, una squadretta da serie B (o magari anche
di C) e che abbiamo fatto fuori, con grande fatica, la Germania. Infine
abbiamo battuto la Francia che era andata in vantaggio sì con un rigore
abbastanza eneroso, ma che ha giocato sicuramente meglio di noi. Sì,
abbiamo preso una traversa, ma le occasioni le hanno avuto loro. Ma, a
quanto pare, l’importante è vincere e non “come” si vince.
È stato comunque un mondiale molto brutto che ha fatto vedere ancora una
volta di che pasta siano fatti i nostri campioni. Ogni torneo
internazionale ne porta alla ribalta uno. Prima lo “sputatore” e oggi
l’”incornatore”. Ho sentito il commento di un cronista sportivo che
informava il suo pubblico sull’usanza dei giocatori di insultarsi quando
sono in campo. Anziché censurarli si giustificano… Mah.
Questa, però, voleva solo essere una premessa perché per la verità il
pretesto di questa bollicina era un altro e precisamente la morte
dell’attrice June Allyson, classe 1917. Rimasi affascinato da questa
attrice quando, ragazzino, la vidi nel film di Antony Mann “Strategic
Air Command” (1955) tradotto in italiano col titolo un po’ bandierone di
“Aquile nell’infinito” e di aquile si trattava per davvero perché il
partner di June Allyson era James Stewart ex pilota dell’aviazione
americana che viene richiamato in servizio. Stewart, che nel film si
chiama Ronnie, nel frattempo si era dato al baseball diventando un
discreto campione ma la chiamata gli fa piantar tutto. Poi va a finire
che l’aviazione gli piace (per la verità gli era sempre piaciuta) e
decide di restarci dicendo addio al baseball e prende la decisione senza
consultare la moglie, che ovviamente si mette a piangere come una
fontana. Ma Ronnie esce con questo epifonema che vale tutto il film: “Ci
sono decisioni che un uomo deve prendere da solo!”.
Questo per dirvi chi era June Allyson, la classica mogliettina americana
tutto zucchero che ingoiava rospi ed era succube del marito. E poi era
proprio carina, accidenti se lo era, e mentre mi guardavo le avventure
di queste “aquile dell’infinito” sorbendomi un gelato all’Arena Corso,
che era il cinema all’aperto dei Salesiani presso l’antichissima
basilica di Sant’Apollinare Nuovo, sentivo crescermi dentro un pazzo
amore per lei, per June Allyson. Avessi potuto me la sarei sposata e
sarei volato in America. L’adolescenza è piena di questi slanci. Ah June
Allyson!
Poi la rividi nell’altro lavoro di Antony Mann “La storia di Glenn
Miller”, con quel “Moolight serenade” che è proprio la fine del mondo e
poi ancora la rividi nei “Tre Moschettieri” a recitare la parte
dell’innocente Costance Bonacieux e infine quella straordinaria
interpretazione di Jo in “Piccole donne”.
Il prototipo della moglie americana ideale fu anche una persona
discreta. Leggo, infatti, che June (il cui vero nome era Eleanor Geisman,
classe 1917) a causa di una caduta dalla bicicletta indossò per molto
tempo una protesi ortopedica e rischiò di perdere l’uso delle gambe ma
lei, caparbia, con la forza di volontà e l’esercizio fisico sfidò il
destino e si iscrisse a una scuola di danza e nel 1938, quando aveva
ventun anni, debuttò a Broadway perché il sogno della sua vita era
diventare una grande ballerina. Una di quelle storie strappalacrime che
avrebbero fatto la gioia dei rotocalchi e invece di questa faccenda non
si seppe mai nulla.
Fuori impazza l’estate e le cicale tritano il tempo con i loro strumenti
striduli. Socrate, nel Fedro, racconta che le cicale una volta erano
uomini con la passione del cantare ed era tanto il desiderio che
dimenticavano qualsiasi altra cosa. La saggezza della natura, allora, li
trasformò in cicale dando a loro la licenza di cantare per tutta la
vita. La storia, detta così, potrebbe sembrare insipida, ma le vecchie
favole hanno sempre una morale e le cicale sarebbero la rappresentazione
ironica di certi poeti. E in un tempo in cui tutti si credono poeti
possiamo stare tranquilli. Le nostre estati saranno sempre rallegrate
(diciamo così) dal concerto di questi insetti, considerati da sempre il
simbolo di questa calda stagione.
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano
("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli
Editore, 2002; SeBook, 2004), "Buon
Compleanno,ONLY YOU!" (Simonelli Editore, SeBook, 2005).
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