Trent’anni fa, il primo novembre del 1978, moriva Giuseppe Berto e mi sembra che quasi nessuno lo abbia ricordato, ma la cosa in sé non mi sorprende più di tanto perché Berto è stato un autore poco amato dalla critica, che non gli ha mai perdonato certi suoi trascorsi e simpatie. Lui però è sempre Berto e alla facciazza dei suoi detrattori nel 1964 fece bingo aggiudicandosi in un colpo solo il Campiello e il Viareggio col suo “Male oscuro”, un libro straordinario, che resterà sicuramente fra i più belli e interessanti del Novecento.
Da quanto mi risulta, però, Berto è stato ricordato oltre oceano, con la giornata di studio “Giuseppe Berto thirty years later” il cui programma si può consultare in internet. Nel sito hanno pubblicato anche una foto, sotto la quale si legge la didascalia “Giuseppe Berto” con le indicazioni della data di nascita e di morte (1914-1978), ma quel volto non è di sicuro quello del nostro scrittore.
Ma l’importante è che lo abbiano ricordato. E nel mio piccolo voglio ricordarlo anch’io, che di Berto sono sempre stato un grande estimatore e del quale ho letto tutto il leggibile. Ma lui è soprattutto l’autore del “Male oscuro”, il libro che gli ha dato fama e successo e che Monicelli ha pure tradotto in film, con uno straordinario Marcello Giannini nei panni non facili del protagonista.
Qui, però, gli sceneggiatori sono incappati in un grossolano errore. È noto, infatti, che nel “Male oscuro” Berto parla moltissimo del capolavoro che ha in mente di scrivere e questo capolavoro, del quale non riesce ad andare oltre ai tre capitoli, è “La cosa buffa”, opera che nel 1972 finì in una pellicola interpretata da Ottavia Piccolo e da Gianni Morandi (e quella sì che fu davvero una cosa buffa!) per la regia di Aldo Lado (conosciuto anche come George B.Lewis) che, a detta del Morandini, non riuscì mai a decollare.
Ovviamente nel film di Monicelli il Nostro è sempre alle prese con la fissa del suo capolavoro da lasciare ai posteri, ma evidentemente gli sceneggiatori non hanno letto bene il “Male oscuro” perché in una scena del film fanno un bel primo piano sulla Olivetti lettera 22 sulla quale è inserito il foglio con l’incipit del capitolo primo “Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre…” che è l’inizio del “Male oscuro” e non certo de “La cosa buffa”, a proposito della quale Berto, nel “Male oscuro”, scrive “ecco tutti dovranno dire quest’uomo per quanto figlio di un modesto cappellaio è l’artista interprete della nostra epoca i posteri da lui capiranno il nostro modo di pensare e di vivere”, progetto ambizioso non c’è che dire anche se il destino ha fatto sì che “Il male oscuro” in quanto a fama e successo abbia superato di molto “La cosa buffa” e credo che la cosa non sia dispiaciuta affatto a Berto che in fondo cercava solamente la gloria.
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Penso che Berto passerà alla storia della nostra letteratura per aver scritto il primo vero romanzo psicoanalitico, sì d’accordo tutti pensano a Svevo e alla sua “Coscienza di Zeno”, ma Svevo ha scritto un romanzo dove si parla di psicanalisi mentre Berto ha scritto il suo praticamente disteso sul lettino freudiano e mettendo a nudo tutta la sua vita e la sua esperienza singolare e in quelle pagine dove i periodi si rincorrono come in un incessante moto browniano (il moto browniano è una faccenda che si studia in fisica e della quale si interessò anche Einstein) si colgono veramente le inquietudini, le ansie e i grandi misteri che attanagliano le persone sensibili e non certo i tipi come quelli della “Giulietta sprint” descritti nel “Male oscuro” (“santo cielo scommetto che ha defecato senza alcun dolore né problema stamane e non pensa alla vita eterna da almeno vent’anni…”).
Purtroppo il mondo appartiene a “quelli della Giulietta sprint”, che non hanno cognizione alcuna del dolore mentre i tipi come Berto si sono caricati sulle spalle la grande croce di quel “male universale” che permea tutto l’universo come una “radiazione 3 K” (anche questo è un riferimento astronomico, indice evidente della mia formazione scientifica). Credo sia questo il valore dell’opera di Berto, col quale fui anche in breve corrispondenza nel senso che ci scambiammo qualche lettera e lui fu molto gentile a rispondermi soprattutto quando gli feci sapere che avrei voluto scrivere un saggio su di lui, allora ero giovane e nella mia zucca ribollivano idee a non finire e non immaginavo di certo quanto sarebbe stato difficile entrare nel complicatissimo mondo dell’editoria e siccome avevo preso l’abitudine di scrivere come lui, vale a dire senza punti né virgole, lui mi disse di stare attento a praticare una strada del genere perché poi la critica mi avrebbe stroncato. E se non sono riuscito a scrivere un saggio di lui, scrissi però un elzeviro in occasione del ventennale del “Male oscuro” che fu pubblicato su “Avvenire” il 2 marzo del 1984.
Parlavo del romanzo come di una Odissea a rovescio e conclusi il mio pezzo così: “Questo libro, dunque, diventa una nuova chiave di lettura del mistero dell’uomo e quel suo periodare quasi a vite senza fine se da un lato conduce il lettore sempre più all’interno della vicenda, dall’altro lo invoglia a penetrare sempre più dentro a se stesso. E la pagina, una volta eliminati gli inceppi della punteggiatura, si fa rapida ‘catabasi’, una discesa dentro all’uomo alla ricerca delle radici di quel ‘male oscuro’ che, sono ancora parola di Gadda, ‘è il logorio a cui ci sommette di giorno in giorno, d’ora in ora, la nostra ‘Erlebnis’, l’esperienza del vivere, la pena o la fatica durata, la ‘dura necessità’”. Magari sarà un po’ da vanesi autocitarsi e di questo chiedo venia.
Ma un po’ di vanità a volte è necessaria, specie se viene utilizzata per ricordare un grande come Giuseppe Berto a trent’anni dalla sua scomparsa.
Se hai un collegamento veloce ADSL clicca sulla freccia e guarda la VideoLettura delle pagine che Franco Gàbici dedica a “Nel Blu dipinto di Blu” di Domenico Modugno e Franco Migliacci nel suo “Una Canzone al Giorno”, il libro per “riascoltare” la colonna sonora dei favolosi Anni Sessanta.
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è stato dal 1985 al 2008 direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno - Avvenire. E' direttore responsabile della rivista Gnomonica e redattore di Nuova Civiltà delle Macchine. Presidente del comitato ravennate della "Dante Alighieri" è autore di numerosi saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002; SeBook, 2004), "Buon Compleanno,ONLY YOU!" (Simonelli Editore, SeBook, 2005), Una Canzone al Giorno" (Simonelli Editore, 2007).
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