Mi riesce difficile pensare che Giuseppe Berto oggi avrebbe potuto essere un arzillo vecchietto di cent’anni.
Compiere cento anni, in fondo, non è poi così difficile.
Mia madre, che era nata nello stesso anno di Berto, ha mancato all’appuntamento con i “cento” per pochi mesi mentre un vecchio (è proprio il caso di dire) amico di mio padre, classe 1910, ogni anno ad aprile mi invita regolarmente al pranzo di compleanno che organizza al ristorante “Molinetto” sulla strada per Punta Marina a Ravenna. Lo scorso anno il vecchietto, al secolo Terzo Ricci ma conosciuto con il soprannome di “Garibaldi”, ha soffiato su 104 candeline…
Berto, invece, se n’é andato il 1 novembre del 1978, alla soglia dei sessantaquattro, un’età che oggi è considerata prematura per compiere un passo di quel genere.
Era nato il 27 dicembre del 1914 a Mogliano Veneto, il paese che – come ricorda lo scrittore nella prefazione a Le opere di Dio (d’ora in poi OD) – dette i natali all’incisore Giambattista Piranesi e all’attrice Toti Dal Monte. E io aggiungo anche Toni Comello, un estroverso uomo di teatro che negli anni Cinquanta del secolo andato dette vita insieme a Walter Della Monica a quella esperienza straordinaria che fu il Trebbo poetico.
Berto, dunque, nasce nel 1914, un anno – come scrive nella già citata prefazione - “noto per essere uno dei più disgraziati dell’intera storia umana a causa più che altro dal fatto che vi ebbe inizio la consuetudine, presto affermatasi, di quelle guerre a largo respiro e ad altissimo coefficiente di mortalità che vennero subito battezzate, tanto per dare l’idea, guerre mondiali”. Ma se il 1914 è disgraziato, non lo sono da meno né il giorno né il relativo segno zodiacale (il Capricorno) sotto il quale “nacquero persone variamente infelici come Paolo Cézanne e Giuseppe Stalin” (OD, p. 13) e sotto il quale “venne deliberato di mettere, ancorché con esattezza non se ne conosca nemmeno l’anno, la Natività di Gesù Cristo, le disgrazie e sofferenze del quale sono elevate a simbolo delle disgrazie e sofferenze di tutta l’umanità” (OD, ibidem).
Dicevo, dunque, che mi riesce difficile immaginare un Berto vecchio perché io lo ricordo abbastanza pimpante e pieno di vita quando calò nella mia città (Ravenna) per presentare la sua favola ecologica Oh, Serafina!
Era seduto su un divanetto ricoperto di velluto rosso nell’anticamera del Teatro Alighieri e quando lo andai a salutare compresi immediatamente che lui non poteva assolutamente ricordarsi di me nonostante fosse intercorso fra noi uno scambio epistolare, scarno ma pur sempre scambio epistolare, nato probabilmente dal fatto che in un mio articoletto avevo parlato bene del suo Anonimo veneziano (ne rimase visibilmente colpito: “Lei è stato l’unico – mi scrisse in una lettera – che ha cercato al di là del dialogo a volte sbadato e comunque di una semplicità sconcertante una intenzione più profonda. Ne sono confortato”) e poi perché avevamo una amicizia in comune, quel don Francesco Fuschini che dopo aver letto Il Male oscuro prese carta penna e calamaio e scrisse sulla terza pagina dell’Avvenire d’Italia una recensione da lasciarlo secco.
Tant’è che Berto, dopo averla letta, si precipitò a Porto Fuori (il paesino a un tiro di sasso da Ravenna dove il “don” – pure lui del 1914 - era parroco) per conoscerlo di persona. E nacque una bella amicizia. “Io voglio molto bene a quello strambo uomo – mi scrisse ancora Berto - e temo sempre di recargli dispiacere con i miei scritti”.
Ma Berto è soprattutto Il male oscuro. Ogni scrittore ha un suo libro e il libro di Berto è Il male oscuro, che per una curiosa combinazione del calendario è uscito proprio cinquant’anni fa. Per Giuliano Gramigna, però, il capolavoro di Berto è La cosa buffa, il romanzo che al tempo della sua nevrosi era rimasto inchiodato sui famosi tre capitoli, amati e limati fino alla ossessione, ma in letteratura ognuno può dire ciò che vuole e pur rispettando il giudizio di Gramigna io resto della mia convinzione, e cioè che il capolavoro di Berto è Il male oscuro, un romanzo che è per davvero il ritratto di un’epoca e di un modo di pensare e di affrontare la vita. Del resto era questo il sogno di Berto: “tutti dovranno dire – si legge in un passo del Male oscuro - quest’uomo per quanto figlio di un modesto cappellaio è l’artista interprete della nostra epoca, i posteri da lui capiranno il nostro modo di pensare e di vivere”.
Beh, credo che Berto ci sia riuscito, a dispetto di un establishment che lo ha sempre ostracizzato per le sue simpatie giovanili per il fascismo, un peccato che nella repubblica delle lettere difficilmente viene perdonato. Ma Berto la sua gloria se l’è conquistata e i suoi libri sono lì a testimoniare la vicenda umana di uno scrittore che si è impegnato in tutti i campi, dal romanzo al cinema, dal racconto al pamphlet, dal teatro alla favola… fino a mettere completamente a nudo se stesso senza pudori e vergogne.
Lo ricordo con stima e affetto. Quando appresi della sua morte, in un uggioso mattino del 1 novembre di tanti anni fa, ebbi la sensazione di aver perso uno di casa. Ma oggi chi si ricorda più di lui?
So di un convegno a lui dedicato recentemente che ha brillato per scarsa partecipazione. Non mi sembra, poi, che i mass media si siano dati pena di ricordarlo come avrebbe meritato. Ma a questo mondo, purtroppo, tutto passa… Perfino Giuseppe Berto.
Franco Gàbici
Se hai un collegamento veloce ADSL clicca sulla freccia e guarda la VideoLettura delle pagine che Franco Gàbici dedica a “Nel Blu dipinto di Blu” di Domenico Modugno e Franco Migliacci nel suo “Una Canzone al Giorno”, il libro per “riascoltare” la colonna sonora dei favolosi Anni Sessanta.
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è stato dal 1985 al 2008 direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno - Avvenire. E' direttore responsabile della rivista Gnomonica e redattore di Nuova Civiltà delle Macchine. Presidente del comitato ravennate della "Dante Alighieri" è autore di numerosi saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002; SeBook, 2004), "Buon Compleanno,ONLY YOU!" (Simonelli Editore, SeBook, 2005), Una Canzone al Giorno" (Simonelli Editore, 2007).