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Ravenna, 6 Marzo 2007
Ricordate il
Calcio-Balilla?
Alle
due del pomeriggio di quelle estati lontane il silenzio avvolgeva il
meridiano ozio della città e nemmeno il diavolo se ne andava a caccia di
anime. Ma noi, ragazzini dalle ginocchia sporche, ci davamo appuntamento
sul sagrato della chiesa in attesa che il prete ci aprisse la saletta
dei giochi.
Le lucertole zigzagavano nervose lungo i vialetti sollevando nugoli di
polvere e si andavano a cacciare fra le crepe della scalinata, che tutta
bianca abbacinava la vista, e le cicale appollaiate sugli alberi
sbattevano senza misericordia le loro elitre dando voce al silenzio.
Ma il prete se la dormiva e noi si stava in paziente attesa di
poter mettere le mani sul nostro oggetto del desiderio, uno
sgangheratissimo calciobalilla, con gli omini rossi e blu, molti dei
quali orribilmente decapitati.
Il calcio-balilla!
Aveva un nome un po’ così, che richiamava alla mente il ragazzino
che nella Genova del Settecento aveva vestito i panni del piccolo Davide
contro il Golia dell’arroganza austriaca, contro la quale aveva
scagliato un sasso gridando: “Che linse?” (comincio?). Si chiamava
Giovan Battista Perasso, era soprannominato “il Balilla”, ma secondo gli
storici i “Balilla” potrebbero essere addirittura due, uno nato nel 1729
e l’altro nel 1735. E Balilla finì addirittura nei versi del nostro inno
nazionale, che pochi cantano perché il nostro amor di patria
evidentemente non ci spinge oltre le prime strofe. Chi, infatti, ha mai
sentito, “I bimbi d’Italia si chiaman Balilla”? Potrebbe sembrare una
apologia del vecchio regime. E allora via il “Balilla”, ma con un
“calcio” davanti diventa innocuo. Calcio-balilla.
Il calciobalilla!
Se ne è parlato molto in questi giorni, quando è morto Alejandro
Finisterre, il suo inventore. In realtà si chiamava Alejandro Campos
Ramirez (Finisterre era la sua città natale, che volle assumere come
cognome) e fu anche poeta, filosofo, ballerino. Il calcio-balilla fu un
gesto di grande tenerezza che gli nacque in testa durante la guerra
civile spagnola quando, appena diciassettenne, rimase ferito da una
bomba. Le sue ferite erano lievi ma attorno a lui, nell’ospedale dove
era ricoverato, molti suoi coetanei avevano riportato gravissime ferite
alcune delle quali avrebbero condotto anche all’amputazione e così addio
a corse sui prati e soprattutto addio alle partite di calcio.
Alejandro, allora, pensò a un calcio da tavolo, il “futbolìn”. Per
la verità, secondo le cronache, Alejandro non andò mai orgoglioso della
sua invenzione, eppure se oggi il suo nome è famoso in tutto il mondo lo
deve proprio ai suoi uomini-birilli fissati alle stecche di metallo e
azionati da manopole. Il calcio balilla veniva azionato da un gettone
che assomigliava molti ai vecchi gettoni telefonici. Il gettone,
infilato in una fessura, consentiva di tirare una manopola che dava via
libera a una serie di palline bianche (quasi sempre di sambuco) con le
quali si giocava la partita.
Quando si “faceva gol” la pallina veniva inghiottita e si doveva
ricorrere a un’altra e così via fino all’esaurimento delle scorte.
Durante il gioco era assolutamente vietato “prillare”, vale a dire far
roteare gli omini velocemente a 360 gradi. “Prillavano” solamente le
maldestre ragazzine e i principianti. I campioni del calciobalilla non
ricorrevano a questi mezzi, ma facevano “ganci” e “rimpalli”. Il
“gancio”, poi, era fenomenale. Quasi sempre veniva effettuato con uno
dei due omini della difesa. L’omino veniva fatto sapientemente girare
attorno alla pallina e poi all’improvviso con una rotazione velocissima
del polso veniva scagliata con violenza verso il portiere avversario. La
traiettoria del ”gancio” finiva con un sordo “clock”, che era il segnale
che la pallina era entrata nella buia caverna della porta segnando un
prezioso punto.
Attorno al calciobalilla abbiamo trascorso gli anni migliori della
nostra vita, seguendo le traiettorie bizzarre della pallina di sambuco
mentre la fantasia compiva il miracolo di trasformare la saletta dei
giochi in un vasto e ampio scenario che dilatava spazi e tempi a
dismisura, “questa stanza non ha più pareti, ma alberi, alberi
infiniti…” (G.Paoli, Il cielo in una stanza) e tutto si consumava lì,
dentro a quella saletta dalle pareti ammuffite che gli omini del
calcio-balilla trasformavano in un luogo paradisiaco e non importava se
gli omini erano decapitati e se a qualcuno si erano spezzate le gambe,
si continuava a giocare con la fantasia e si tendeva tutti alla vittoria
perché chi vinceva aveva il diritto di continuare a giocare e di sfidare
un’altra coppia di amici.
Poi arrivava don Luigi che ci invitava tutti al “servizio” della
benedizione delle cinque. Terminava l’incanto. Occorreva indossare la
veste azzurra e la cotta, ma alla fine della benedizione ci sarebbe
stato il tempo per qualche altra partita. Poi tutti a casa per la cena e
già il pensiero correva all’indomani, quando alle due ci saremmo trovati
tutti, insieme alle lucertole che guizzavano fra il ghiaietto e le
cicale che cantavano per una partita di calciobalilla con gli omini
rossi e blu infilzati come spiedini lungo una stecca di metallo. Omnia
fert aetas, animum quoque (Virgilio, Bucoliche, Ecloga IX). Eppure resta
ancora il dolce ricordo di una pallina che rimbalzava su pareti di legno
per dare l’illusione di correre a chi la vita aveva ingiustamente
castigato. Così aveva pensato Alejandro Campos Ramirez, scomparso in
questi giorni a 87 anni di età. Ma noi, ragazzini con le ginocchia
sporche, non lo sapevamo. Guardavamo le lucertole correre fra la ghiaia
aspettando che il prete ci aprisse la stanza dei giochi. Dove
troneggiava l’oggetto primario dei nostri desideri: uno sgangheratissimo
calcio-balilla.
Franco Gàbici
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Franco Gàbici
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del
Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista
pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani
Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze"
de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante
Alighieri".
Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di
cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col
Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di
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