Troppo facile ricordare i versi di Carducci quando il nostro viso si bagna di questa nebbiolina padana, una nebbia che scende malandrina a ricoprire tutto e a conferire al paesaggio una fisionomia irreale perché all’improvviso scompaiono case, alberi e cose e dal buio brumoso si stagliano solamente i rettangoli illuminati delle finestre che feriscono la nebbia come gli occhi dei gatti, troppo facile ricordare Carducci e i suoi irti colli e la nebbia che piovigginando sale anche se è tutto da dimostrare questa storia della salita perché di solito la nebbia scende e quando sale la nebbia non c’è più…
Troppo facile anche ricordare le riflessioni al limite della metafisica che Antonio Caponi (Totò) regala a Mezzacapa nello straordinario “Totò Peppino e la malafemmina” (1956) (“Ma se a Milano quando c’è la nebbia non si vede, come si fa a vedere che c’è la nebbia a Milano?)…
Troppo facile dicevo e così io faccio l’originale ricordando invece Leopardi che, nonostante tutte le sue paturnie, non ha mai descritto la nebbia e del resto se avesse cantato la nebbia non avrebbe potuto dedicare versi alla Luna, insomma a farla corta mi viene in mente la canzone ad Angelo Mai quando Giacomo, chiamandolo “italo ardito”, lo invita a svegliar dalle tombe i nostri padri affinché possano parlare a “questo secol morto” sul quale “incombe tanta nebbia di tedio”.
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Giacomo scriveva questi versi nel 1820 perché questo Angelo Mai, che era un filologo e un cardinale, aveva scoperto fra le scartoffie del Vaticano niente meno che il “De Re Publica” di Cicerone e mentre tutti gli studenti del mondo avrebbero avuto un moto di stizza nei confronti del cardinale, Giacomuzzo si entusiasmò a tal punto da comporre versi in onore del porporato, ma lui era un genio altrochè e magari leggendo Marco Tullio avrà pescato qualcosa da inserire nel suo repertorio perché il Cicerone nel terzo libro della sua “Republica” scrive che l’uomo è stato gettato in questo boia d’un mondo da una natura che, guarda te, definisce più matrigna che madre, concetto che poi avrebbe ripreso Giacomo in tutta la sua poetica.
Ecco, la nebbia mi suggerisce queste consi- derazioni e intanto la mente vola e vola a certe poesie che mi facevano leggere al tempo della scuola elementare quando ogni mese aveva le sue caratteristiche, come nella filastrocca di Angiolo Silvio Novaro, che moriva ad Oneglia settant’anni fa, nel 1938, e che si impiegò nella dita olearia di famiglia, la “P.Sasso e figli” che era di proprietà della madre che si chiamava Paolina Sasso, ecco dunque da dove salta fuori il famoso “Olio Sasso” che tutti abbiamo usato (e usiamo ancora) per condire l’insalata anche se dubito che qualcuno, mentre agguanta la confezione metallica di color verde, pensi alle radici poetiche di quell’olio ed ecco perché, memore degli insegnamenti della maestra, mi è rimasto nella mente che l’olio è di Oneglia e che le noci sono di Sorrento, comunque a parte queste divagazioni la filastrocca di Novaro diceva così:
Gennaio mette ai monti la parrucca
Febbraio grandi e piccoli imbacucca
Marzo libera il sol di prigionia
April di bei color gli orna la via
Maggio vive tra musiche d’uccelli
Giugno ama i frutti appesi ai ramoscelli
Luglio falcia le messi al solleone
Agosto, avaro, ansando le ripone
Settembre i dolci grappoli arrubina
Ottobre di vendemmia empie la tina
Novembre ammucchia aride foglie in terra
Dicembre ammazza l’anno e lo sotterra
Una filastrocca carina dove l’unica parola ostrogota era quell’”arrubina” di difficile interpretazione per un bambino delle scuole elementari, arrubina nel senso di rendere rosso come il rubino, ma allora c’era anche il fascino per certe parole misteriose e la scuola del resto serviva proprio per questo e di parole difficili ce n’erano moltissime, come in “Va, pensiero”, ad esempio, che il maestro Calamosca ci faceva cantare in coro disponendoci ad anfiteatro attorno al suo armonium nell’ora di musica e mentre noi cantavamo la sua mano ondeggiava come un gabbiano e sembrava che accarezzasse quelle note alle quali noi maldestramente tentavamo di dare una voce, “olezzano”, “di Sionne le torri atterrate”, “o membranza” e “fatidici vati”, ma come diavolo parlavano i nostri
antenati, mah era veramente un mistero… la vita era proprio una cosa difficile, ma allora tutti si pensava che fosse un’impresa lontana, di là da venire, e invece un bel giorno hai svoltato l’angolo e come per un brutto incanto il cortile dei giochi è diventato una cosa lontana, come se non ti appartenesse più… ma questi sono discorsi tristi ispirati dalla nebbia, che “piovigginando sale” mentre “sotto il maestrale urla e biancheggia il mar” e i miei pensieri sembrano proprio “stormi di uccelli neri” che come “esuli pensieri” migrano nella carità della sera.
(Ravenna, 22 maggio 1943). Laureato in fisica, è direttore del Planetario e del Museo di scienze naturali di Ravenna. Giornalista pubblicista, collabora con articoli di scienza e costume ai quotidiani Il Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno - Avvenire e all'inserto "Tuttoscienze" de La Stampa. E' presidente della sezione ravennate della "Dante Alighieri". Oltre a una ventina di saggi di storia locale ("Ravenna: cento anni di cinema", "Leopardi turista per caso"...), ha scritto "Didattica col Planetario" (La Nuova Italia, 1989) ed è autore dell'unica biografia di don Anacleto Bendazzi, considerato il più grande enigmista italiano ("Sulle rime del don", Ravenna, Essegì, 1996), "Gadda - Il dolore della cognizione" (Simonelli Editore, 2002; SeBook, 2004), "Buon Compleanno,ONLY YOU!" (Simonelli Editore, SeBook, 2005), Una Canzone al Giorno" (Simonelli Editore, 2007).
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