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Verona,9 Gennaio 2023

Altro che “Fine della Storia”
stiamo peggio che
nella Guerra Fredda

    L’ instabilità è la regola nelle relazioni internazionali: quello che noi chiamiamo “ordine mondiale” è sempre stato una situazione tutt’altro che ordinata, ai limiti del caos e dell’anarchia. La Pax Americana era un’illusione come a suo tempo lo fu la Pax Romana. Anche se fa male dirlo, la guerra ha avuto un ruolo decisivo nella Storia, ed è purtroppo illusorio pensare che scompaia presto dal nostro orizzonte, prima che l’intero pianeta non si sia evoluto, integrato e armonizzato, superando tutte le rigidità dogmatiche e i fanatismi estremisti ancora presenti.
    All’orizzonte, tutt’al più, possiamo intravvedere i cambiamenti delle sue regole: la spaventosa potenza distruttiva degli arsenali nucleari concepiti esclusivamente come deterrente, ha generato diversi conflitti per procura (fra piccoli alleati delle superpotenze rivali), ma oggi dirotta energie militari verso armi asimmetriche, poco costose ma devastanti, quali droni e altre applicazioni dell’intelligenza artificiale, cyberguerre, fake news virali per la disinformazione, bioterrorismo, usi militari dello spazio.
    Tutte queste novità nel campo strategico non tendono a favorire l’Occidente per almeno tre ragioni.
    PRIMO:
    le nuove armi tecnologiche e non convenzionali costano poco, quindi riducono il vantaggio militare associato al Pil.
    SECONDO: gli USA hanno investito così tanto e così a lungo nelle armi tradizionali (si pensi al costo di una portaerei), che i suoi vertici militari sono legati al “capitale” di cui dispongono, mentre altre nazioni in ascesa diversificano più agilmente verso le nuove tecnologie belliche.
    TERZO: (e questo riguarda l’Europa, il Giappone, la Corea-Sud, Australia, Nuova Zelanda, Taiwan) una lunga pace sotto l’ombrello protettivo degli USA ha creato pericolose illusioni pacifiste nell’opinione pubblica delle liberaldemocrazie. Fra tali illusioni figura l’ambizione dell’Europa di essere una “potenza mite”, capace di rispettare e farsi rispettare da tutti e di difendersi usando solo strumenti civili. L’aggressione russa all’Ucraina ha ricordato le conseguenze angoscianti di un ridimensionamento delle forze armate: se Putin un giorno dovesse rivolgere i suoi appetiti verso qualche paese della NATO.
    Il costo “ordinario” per il mantenimento dell’ombrello militare americano ha ormai oltrepassato da tempo i 700 Mld di $ annui (viene da piangere a pensare i potenziali usi alternativi di questa enorme massa di risorse).
    Gli imperi crollano quando cominciano a soffrire di iperdilatazione dei territori da difendere e delle spese militari, non più sostenibili. Tuttavia, la dottrina sui benefici universali dell’egemonia liberale non riesce a superare i suoi tre dogmi apprezzati sia dai conservatori che dai progressisti.
    PRIMO DOGMA: è impossibile una guerra fra democrazie
    (principio ispirato dal filosofo tedesco Immanuel Kant). Conseguenza: se desideriamo vivere in un mondo pacifico, dovremmo esportare democrazia in ogni angolo del pianeta. Con le buone o con le cattive? Questo dipende dalle inclinazioni di chi governa al momento. I problemi di questa apologia delle democrazie sono tanti. Può legittimare aggressioni contro paesi non democratici e i loro popoli. Inoltre non ci rassicura in un mondo dove i confini delle democrazie indietreggiano. La mostruosità delle torture inflitte dai soldati americani (processati solo alla fine dell’occupazione) ai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib, lo scandalo delle detenzioni illegali a Guantànamo, le stragi di civili e altre vittime collaterali degli “errori” della NATO: una lunga litania di crimini e abusi ha dimostrato che le crociate per esportare democrazia hanno macchiato la credibilità dell’Occidente.
    SECONDO DOGMA: quando tra le nazioni si sviluppano legami economici importanti, la guerra diventa un controsenso perché i danni sarebbero insopportabili per tutti. Ma il teorema dello scontro impossibile per ragioni economiche era già crollato allo scoppio delle due guerre mondiali: Regno Unito e Germania intrattenevano una fitta rete di rapporti commerciali e finanziari poco prima di combattersi.
    TERZO DOGMA: valido, soprattutto, per la sinistra globalista, è l’idea che una robusta architettura di istituzioni multilaterali sia una garanzia forte di pace, sicurezza, stabilità e giustizia. Non sembra reggere di fronte all’incapacità dell’ONU di evitare guerre, all’impotenza dell’Organizzazione mondiale del commercio nel far rispettare le regole, al fallimento dell’Organizzazione mondiale della sanità davanti alla pandemia.
    Occorre, quindi, un riesame profondo del trentennio globalista in cui le grandi strategie di Washington sono state dettate prevalentemente dagli interessi del suo sistema economico e politico. Ne fa parte anzitutto quello che un ex generale, il vincitore della seconda guerra mondiale sul fronte europeo, definì nel 1961 “il complesso militare-industriale”. La formula, coniata dal presidente repubblicano Dwight Eisenhower, è stata con forza riesumata dal democratico Obama a proposito degli scontri indimenticabili al calor bianco che si consumarono alla Casa Bianca dal 2009 in poi sulla guerra in Afghanistan. Diciamolo, “il complesso militare-industriale” è molto più di una lobby.
    Certo non si può ridurre tutta la storia dell’ascesa e declino alla sola forza economica. Un’economia prospera e sana è una condizione, almeno nel lungo termine per avere una potenza militare tale da dissuadere i rivali aggressivi e molesti. Ma non è l’unica condizione. Altri fattori importanti sono la geografia, la coesione e l’equità sociale, i sistemi di alleanze, la fiducia in sé, l’adesione a valori. Ma soprattutto una attenzione particolare va dedicata alla qualità della classe dirigente. Un establishment sclerotizzato, uno Stato iperburocratico possono minare le basi di una grande potenza. L’Occidente – se funzioneranno gli anticorpi della libertà e dello Stato di Diritto – saprà liberarsi di una classe dirigente inadeguata: incompetente, paurosa e/o corrotta.

    Tommaso Basileo

























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