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Verona, 25 Gennaio 2018

Chi saprà addomesticare la PAURA dei contemporanei?

    Cioran sosteneva che: “La paura è uno dei dati, una delle condizioni della nostra esistenza e del nostro equilibrio: fa parte dell'ecologia della mente”. Sì, d'accordo, ma se supera una certa soglia, la paura ci investe e ci sopraffà, trasformandosi in principio nocivo. In una democrazia a suffragio universale, poi, può diventare un elemento devastante.
    Le libertà fondamentali, l'habeas corpus, hanno prodotto un livello accettabile di sicurezza individuale e collettiva, mai visti prima nella storia dell'uomo. Ma il livello più alto raggiunto in Occidente dal sistema politico, nel tentativo di regolare e ridurre la paura, è stato, senza ombra di dubbio, il welfare state costruito in Europa Occidentale, sul modello fordista, nel secondo dopoguerra (anche il fallito esperimento comunista, ha rappresentato un tentativo liberticida di trasferire la paura dal livello individuale a quello collettivo).
    Si può dire, in pratica, che lo stato sociale si è fatto carico dei rischi – e quindi della paura – strettamente legati all'economia di mercato che, nonostante il suo ineguagliabile potenziale creativo di ricchezza e di benessere, si fonda su un andamento ciclico e su una logica contrattuale e concorrenziale che suppone la diseguaglianza economico-sociale e la riprodurrebbe senza limiti se non fosse sottoposta a regole.
    L'attuale modello globale del mercato ha indubbiamente eroso, negli ultimi due decenni, le strutture sociali e politiche di tutti gli stati nazionali degradandone la coesione identitaria e comunitaria, limitandone drasticamente la capacità di produrre sicurezza soprattutto dopo la Grande-Crisi/2008: crescente instabilità, squilibri demografici, massicce migrazioni, evoluzione tecnologica dei sistemi produttivi, contrazione delle retribuzioni e una diffusa incertezza dei rapporti contrattuali, soprattutto per donne e giovani, nei punti più maturi dello sviluppo. Tuttavia, molti economisti continuano a sostenere che gli investimenti e le politiche assistenziali dello stato sociale ostacolano la crescita economica. Per questa ragione, secondo costoro, l'onere di un'ampia serie di rischi deve essere posto a carico non dello Stato ma dei singoli cittadini, secondo un approccio orientato a privatizzare la responsabilità del rischio e la metabolizzazione della paura.
    Su questo punto occorre essere molto chiari: se i rischi di cui si vuole privatizzare la responsabilità sono il classico “rischio d'impresa” o il “rischio speculativo” si può essere d'accordo (è inaccettabile che imprenditori o scommettitori pretendano che lo Stato li risarcisca dei loro fallimenti). Non siamo più d'accordo se la serie dei rischi che si vuol mettere a carico dei cittadini comprende, in generale: il salario di disoccupazione temporanea, il minimo salariale, il rischio di licenziamento per discriminazione politica, razziale, sessuale, l'accollamento sulle persone e sulle comunità locali del rischio di disastro ambientale, il rischio di morire sul lavoro, il rischio di lasciare senza protezione, dopo di noi, un figlio invalido, il rischio di dover subire accanimento terapeutico non potendo disporre le proprie volontà in un testamento biologico, eccetera, eccetera.
    Intanto, dal sempre più frammentato e caotico tessuto sociale si sta alzando una marea di solitudine, frustrazione e risentimento da cui emerge una sconfinata richiesta di protezione e una febbrile esigenza di sicurezza e incolumità: ciò a prescindere dalla posizione sociale dei cittadini, dal loro livello culturale e dalle loro credenze religiose.
    Di fronte a questo panorama lunare, una crescente “dissonanza cognitiva”, il ripiegamento individualistico e consumistico del “soggetto occidentale” sembrano senza alternative. La sua richiesta di sicurezza – come le ragioni della sua paura – è divenuta più pressante che mai, e ha mutato profondamente motivazioni e rivendicazioni: da una versione “positiva” della richiesta di sicurezza si è passati a una versione “negativa”. La sicurezza, così, è sempre meno associata ai legami di appartenenza sociale: alla solidarietà, alla prevenzione, all'assistenza, in una parola alla sicurezza intesa come garanzia per tutti di trascorrere la vita al riparo dall'indigenza, dallo sfruttamento, dalle malattie e dallo spettro di una vecchiaia invalidante e miserabile.
    Il punto è che il modello politico-sociale fondato sulle “aspettative crescenti” regge solo in continuità dello sviluppo. Una recessione lunga e profonda, canalizza invece la paura in una diffusa richiesta di repliche repressive contro i “malvagi che complottano contro il popolo”. Ma chi sarebbero i malvagi? Gli imprenditori che falliscono o delocalizzano? I banchieri che chiedono troppe garanzie per erogare prestiti? Le ONG che sbarcano nei nostri territori, già in sofferenza, disgraziati concorrenti? Anche a me pare indispensabile sanzionare alcuni comportamenti: la corruzione accertata dalla Magistratura, i paradisi fiscali, la criminalità organizzata, i potenti giocatori di risico dell'economia psichedelica mondiale, dopo aver ripensato seriamente le regole finanziarie GLOBALI per non essere travolti ogni lustro da uno Tsunami.
    Non è vero, però, che nelle nostre società complesse si vada rafforzando la domanda di una “protezione politica eguagliatrice”
    . Al contrario, a me pare che si stia affermando, nonostante i postumi della Grande-Crisi, una sorta di pulsione fondamentale per il riconoscimento e la protezione dell'autonomia individuale. Altro che modello egualitario sublimato dalle nuove leadership populiste. Ciò di cui le nuove generazioni sentono bisogno non è semplicemente una libertà “liberale”, la libertà di non essere impediti. Mi sembra che i giovani aspirino a qualcosa di più e di diverso: ciascuno vorrebbe disegnare il profilo della propria vita. Vorrebbe che il proprio destino fosse il risultato di un progetto su se stesso, non di un disegno altrui. Vorrebbe controllare i suoi processi cognitivi, i suoi sentimenti e le sue emozioni, in altre parole, aspira in qualche modo, talora inconsapevolmente, alla sua “autonomia cognitiva”: la capacità del soggetto di controllare, filtrare e interpretare razionalmente l'oceano di comunicazioni bacate e contraddittorie che riceve, in continuazione, da tutte le parti.
    Del resto, in presenza di una crescente efficacia illusionistica/tossica dei mezzi di comunicazione di massa, in presenza delle migliaia di start-up reticolari che fioriscono nell'attuale pantano politico, capaci solo di fomentare e amplificare la paura e l'odio sociale rendendolo virale, il destino della democrazia in Occidente sembra sempre più dipendere dall'esito della battaglia a favore di questo nuovo, fondamentale “diritto dell'uomo” che potrebbe essere chiamato habeas mentem.
    Possiamo dire addio allo Stato di Diritto se non vincerà una critica positiva e realista, contro una critica FALSA, manipolatoria, distruttiva e se non ci sapremo liberare definitivamente dalle antiche grandiosità retoriche del messianesimo politico: dobbiamo sbarazzarci, una volta per tutte, sia del Grande Modello alternativo che del mito aristotelico-rousseauiano dell'agorà e del “cittadino totale”. Oggi, dobbiamo sentirci operatori di una ricerca instabile, modificabile in corsa, senza traguardi assoluti.
    Nelle nostre società complesse, ad alto sviluppo tecnologico, il compito centrale della politica tenderà a divenire sempre di più LA GESTIONE DEI RISCHI E DELLE RELATIVE PAURE: rischi sociali, ambientali, sanitari, finanziari, terroristici prodotti circolarmente dallo stesso, irresistibile, sviluppo tecnologico e della complessità. E per gestire le “società del rischio” saranno sempre più necessarie elevate competenze specialistiche, efficienza amministrativa, tempestività e sincronizzazione delle decisioni istituzionali, flessibilità e capacità innovativa, MA ANCHE controlli pubblici rigorosi, trasparenza e nuove forme di partecipazione democratica.
    Il perfetto contrario, quindi, della demagogia, dell'incompetenza e del massimalismo omeopatico imperanti nella campagna elettorale che stiamo vivendo in questo inizio 2018 nel nostro Paese.
    Anche se presi d'assalto da orde isteriche di arruffapopoli di tutte le risme FERMIAMOCI A PENSARE UN MOMENTO COSA È PIÙ UTILE A NOI E AL NOSTRO PAESE, E NON COME POSSIAMO FARE PIU' DANNO PER SENTIRCI VIVI.

    Tommaso Basileo

























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