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n. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - Verona, 8 Dicembre 2016

La “Stagnazione Secolare” fa reagire la classe media?

    Nel 2013 Lawrence Summers, economista americano, fece ricorso alla terminologia sulla stagnazione secolare in relazione alla riduzione delle aspettative di un ritorno ai tassi di crescita precedenti alla Grande Crisi del 2008. Summers fece appello a tematiche quali i problemi demografici legati all'invecchiamento della popolazione, i cambiamenti nella distribuzione del reddito che riducevano le categorie di reddito medio-basso con maggiore propensione al consumo e anche a possibili difficoltà nel trasformare in miglioramenti della produttività aziendale le innovazioni scientifiche e tecnologiche.
    Molti economisti individuano nella Globalizzazione le cause profonde di questa potenziale stagnazione secolare. Sulle vie percorribili per mettere in discussione la Globalizzazione sarebbe bene evitare due ricette estreme. UNA consiste nel bloccare questo processo (come pare intenda fare Trump). Quindi imporre misure che in definitiva produrrebbero un grave arretramento nello sfruttamento dei vantaggi, dei flussi internazionali, commerciali, finanziari e tecnologici. L'ALTRA consiste nel non fare nulla, lasciare che tutto rimanga così com'è, ovvero ignorare l'insegnamento degli anni della Grande Recessione, gli smottamenti della coesione sociale, il passaggio, di fatto, dalla “Società dei 2/3” alla società dimezzata.
    Nell'ultimo documento del G20 si è tracciata una linea teoricamente apprezzabile. Da un lato si è detto che una ripresa solida richiede di considerare nuovamente come prioritaria la creazione di ricchezza produttiva, garantendo incentivi per l'avvio di quelle attività che sono di autentica utilità sociale. Allo stesso tempo, si è detto che bisogna garantire che il sistema finanziario venga regolamentato e sostenga queste attività anziché disseminare di bombe ad orologeria il percorso dell'economia reale (il contrario della deregolamentazione che intende favorire Trump). Secondo questo documento, gli squilibri devono essere corretti (eccessivo indebitamento o eccessive esportazioni) e i sistemi fiscali devono essere rivisti per garantire molto più di un equo contributo di tutti all'indispensabile erogazione di beni pubblici, nazionali e globali. Bisogna smettere, si è detto, di tollerare i meccanismi dell'evasione fiscale e l'esistenza dei famigerati “paradisi”. Del resto, i dati globali sono senza appello. Il tasso di crescita medio annuo dei paesi dell'OCSE è sceso, via via, dal 5,2% (1961-1969) al 3,9% (1970-1979), al 2,6% (1980-1989), al 2,1% (1990-1996), al 1,1% (1997-2005), al -1,5% (2007-2012). Intendiamoci, il vero problema non è costituito dalle variazioni intervenute nella distribuzione del PIL mondiale nei venti anni tra il 1995 e il 2015. Il PIL dei paesi OCSE nel 1995 era il 45,2% del totale, Cina al 5,9% e India al 3,8%. Nel 2015 il PIL OCSE è sceso al 32,8%, quello cinese è salito al 17,2% e l'indiano al 7,1%. La variazione delle quote di partecipazione alla produzione della ricchezza globale non costituiscono affatto un problema quando l'economia complessivamente cresce e tutti stanno meglio.
    Il problema reale determinato dalle dinamiche della Globalizzazione è un altro. Si è creato un universo economico in cui l'imprenditore non ha più la sensazione di contribuire, per mezzo delle retribuzioni che paga, alla formazione della domanda totale della nazione. Le retribuzioni, la cui aggregazione a livello mondiale è un'astrazione inaccessibile, per l'impresa ormai non sono altro che un costo di produzione, che ha interesse a comprimere quanto più possibile. Ogni tentativo compiuto su scala nazionale per rilanciare la domanda, per accrescere il consumo delle famiglie a reddito medio-basso, aumentando le retribuzioni, riesce soltanto a generare domanda per il sistema mondiale e una diminuzione della competitività delle imprese.
    Una simile configurazione logica crea le condizioni ideali per un ritardo sistemico della domanda complessiva rispetto ai guadagni di produttività generati dal progresso tecnico. Il fatto che lo scambio diventa “esterno alla nazione” riporta il capitalismo al suo stadio primitivo, prekeynesiano: quello di un sistema i cui attori non riescono più a concepire l'idea di domanda totale e sono completamente dominati dal gioco delle forze microeconomiche.

    Tommaso Basileo

























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