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Verona,30 Dicembre 2022

Colpa di Biden
il dramma afghano?

    "Io non manderò un’altra generazione di americani a rischiare la vita in Afghanistan senza una prospettiva, senza una missione chiara e definita. Dopo vent’anni di guerra, 1.000 miliardi di dollari spesi, più di 2.400 dei nosti militari uccisi, chi di voi è pronto a mandare sua figlia o suo figlio su quel fronte?”. Con queste parole, nell’estate del 2021, Joe Biden concludeva la più lunga di tutte le guerre americane, che ebbe inizio poco dopo l’11 settembre 2001 come reazione a quell’attacco terroristico. Un ventennio: più delle due guerre mondiali e del Viet Nam messe insieme. “E nonostante questo” ha ammesso il presidente “i talebani sono tornati al massimo delle loro forze dal 2001”. Era un Biden realista, che parlava alla nazione con il linguaggio dell’onestà.
    I fustigatori dell’imperialismo americano sono colpiti da grave amnesia: rimproverano agli USA l’abbandono di un Paese nel quale (secondo quel che loro stessi dicevano con fervore vent’anni prima) non sarebbero mai dovuti entrare. Il ventesimo anniversario dell’11 settembre ha coinciso con la rivincita dei talebani e il ripristino del loro potere troglodita e totalitario, subito esercitato calpestando i diritti umani fondamentali.
    Non è stata una sorpresa per Biden.
    Quando il presidente ha preso la sua decisione sul ritiro, un rapporto dell’intelligence gli preannunciava proprio questo: la partenza delle forze americane avrebbe provocato un ritorno al dominio dei talebani. Ma il rapporto ipotizzava che l’evento nefasto si sarebbe realizzato gradualmente in qualche anno. La “guerra più lunga” è stata dunque del tutto inutile? Biden era diventato scettico sulla guerra in Afghanistan molti anni prima, di sicuro lo era quando faceva il vicepresidente con Obama e si era opposto (invano) alla pressione dei generali che volevano un nuovo aumento di truppe su quel fronte. Denunciava già allora il fatto che in Afghanistan si fosse verificato il medesimo fenomeno che aveva segnato il conflitto del Vietnam, definito mission creep, cioè la metamorfosi strisciante da una missione a un’altra.
    All’origine, gli USA e la Nato andarono a combattere in Afghanistan non perché il regime dei talebani si macchiava di orrendi abusi, opprimeva le donne e le minoranze religiose, distruggeva preziosi simboli di altre confessioni come le statue millenarie dei Buddha nella Valle di Bamiyan. Per quanto l’elenco dei crimini dei talebani fosse già abominevole, quello che fece scattare l’intervento militare dell’Alleanza atlantica nei confronti di Kabul fu l’aver dato ospitalità e protezione ad al-Qaeda quando Osama bin Laden preparava l’attacco dell’11 settembre 2001. I dirottamenti multipli, la distruzione delle Torri Gemelle a NY, l’attentato contro il Pentagono di Washington, tutto era stato ordito e preparato dalla base afgana di al-Qaeda. I talebani si erano rifiutati di consegnare bin Laden agli americani anche dopo che si era macchiato della strage di quasi tremila civili innocenti. L’invasione dell’Afghanistan da parte di George W. Bush e degli alleati Nato aveva quindi una legittimità e due scopi precisi: 1) castigare un regime terrorista che aveva colpito la sicurezza nazionale degli USA; 2) estirpare al-Qaeda.
    Questi due obiettivi vennero raggiunti. I talebani offrirono una resa incondizionata nel 2003. Bin Laden fu eliminato nel 2011, anche se nel frattempo si era rifugiato in Pakistan con la protezione dei servizi segreti di un’altra teocrazia islamica.
    “Missione compiuta” avrebbe potuto dire Barack Obama nel 2011 e ritirarsi dall’Afghanistan: questa allora era la posizione di Biden.
    Ma nel frattempo era avvenuto il mission creep, l’allargamento strisciante della missione originaria. I progressisti umanitari si erano messi in testa di trasformare l’Afghanistan in una nazione modello per il rispetto dei diritti umani; i neoconservatori lo vedevano come un tassello di un piano geostrategico più vasto teso a ridisegnare gli equilibri del Medio Oriente.
    Entrambi, accusano Biden di fallimento. Le critiche al presidente per aver perso la guerra vengono da questi due fronti contrapposti. Gli umanitari, cioè gli stessi che erano soliti denunciare le guerre americane come operazioni imperialiste, gli rimproverano di aver abbandonato il popolo afghano al suo destino, in particolare le donne, che grazie all’invasione Nato avevano acquisito il diritto allo studio e altre parità. I falchi imputano a Biden un’umiliante ritirata di fronte al nemico, sorvolando sul fatto che già Trump aveva preso le distanze da tutte le guerre imperiali dell’era Bush e aveva firmato un accordo con gli stessi talebani.
    Biden ricorda: “Non siamo andati in Afghanistan per costruire una nazione. Nemmeno per unificarla. Non ci è mai riuscito nessuno, neppure gli imperi del passato”. Infatti, non ebbe successo neanche Alessandro Magno; molto prima che l’Afghanistan fosse definito “la tomba degli imperi” britannico e sovietico.
    La popolazione americana da tanto tempo è ormai stanca di Impero. L’ultima guerra vissuta con trionfalismo fu quella del 1991, Desert Storm, per liberare il Kuwait dopo l’invasione di Saddam Hussein. I democratici votarono Obama perché si era opposto all’invasione dell’Iraq in cerca di armi di distruzione di massa, i repubblicani hanno eletto Trump ben sapendo del suo isolazionismo e del suo nazionalismo. È l’establishment che si aggrappa all’Impero e condanna Biden per la débàche di Kabul.
    Negli anni fu appunto dal Pentagono che venne “la più gigantesca operazione di lobbying scatenata dai militari contro la presidenza degli Stati Uniti”. “Pretendevano di ovviare ai tanti segnali di fallimento con una massiccia escalation di truppe”, ha raccontato Obama nelle sue memorie. Con un decennio di ritardo l’ex presidente ha dato ragione a Biden. Prolungare l’avventura militare in Afghanistan era sbagliato. Il nation-buiding si deve fare ma in America dove c’è una nazione da ricostruire dalle fondamenta.
    Lo scontro è ancora aperto e la disastrosa gestione del ritiro da Kabul, l’avanzata di Cina e Russia su altri quadranti strategici hanno messo sulla difensiva le forze che sostengono Biden consapevoli che il ventennio delle guerre contro il terrorismo ha regalato tempo e risorse alla Cina per accelerare la sua corsa verso la supremazia.

    Tommaso Basileo

























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