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Verona, 19 FEBBRAIO 2019

Un'opportunità
o un rischio l'autonomia regionale differenziata?

    Troppi sono gli interrogativi senza risposte che si stanno accumulando intorno al tema dell'autonomia differenziata o rafforzata, che dir si voglia, delle regioni a statuto ordinario. Innanzitutto, non si capisce se dobbiamo assimilare questo percorso, insieme alla riduzione dei parlamentari e l'introduzione del Referendum propositivo, alla stregua di una vera e propria Riforma Costituzionale.
    Già, perché, la modifica delle competenze regionali, si ribadisce, è già implicita nell'art. 116 della stessa Costituzione. Il vero problema pare essere un altro: che dal 2001, tra il cambio di schieramenti politici a livello governativo e due tentativi, contrapposti e falliti, di Riforma organica della seconda parte della Costituzione, nessuno si è preoccupato di emanare le norme e le circolari attuative per rendere concretizzabile, in modo ordinato e ragionevole, quanto previsto dalla riscrittura del Titolo V.
    Ora, oltre al fatto indecente che circolano due o tre testi sulla modifica delle competenze regionali richieste, tutto si muove a livello privato, quasi segreto, come fosse un argomento appannaggio dei soli gruppi dirigenti regionali di maggioranza di cui non è previsto nessun dibattito pubblico e ciò, dopo la stagione dei Referendum consultivi in Veneto e Lombardia, in cui circolarono propositi fuori di testa tipo quello di trattenere a livello regionale i nove decimi delle risorse fiscali.
    Naturalmente, tutti aspettano al varco, in Parlamento, il Governo e le tre Regioni che hanno avviato questo processo. Ma in Parlamento per fare cosa?
    Se, come continuano a ripetere i dirigenti leghisti, la trasformazione dell'autonomia sarà il risultato esclusivo dell'accordo bilaterale, della relazione pattizia con lo Stato e questo PATTO passerà dal Parlamento per essere votato ma è INEMENDABILE. Mi domando: dal Parlamento ci passa per una semplice presa d'atto, per cortesia istituzionale, o può, al limite, essere respinto in blocco?
    Il Presidente Mattarella ha già messo le mani avanti: “Se ne discuta pure ma l'orizzonte comune al quale tendere deve restare l'Italia unita”. E' sufficiente chiedere che non si esca fuori da una “equilibrata distribuzione di competenze e di RESPONSABILITA' fra i vari livelli di governo secondo i principi costituzionali di autonomia, sussidiarietà e buon andamento dell'amministrazione”?
    Come si farà a gestire questo processo riformatore senza un Senato delle autonomie?
    Perché non si dice una sola parola circa l'esigenza di riportare in capo allo Stato: Protezione Civile, Strategie energetiche, Reti infrastrutturali, Commercio con l'estero?

    Gli esponenti della Lega stanno facendo di tutto per minimizzare l'impatto potenziale di questa trasformazione. Affermano che per cinque anni, le Regioni che avranno contrattato e ottenuto l'autonomia rinforzata, continueranno a ricevere dallo Stato gli stessi fondi nazionali per gestire i servizi che hanno incorporato, sempre basati sui costi pro-capite storici. Quindi, si affrettano a chiosare, non cambia nulla, perché tutta questa agitazione?
    Ma le cose non stanno esattamente così. Già si prevede che, trascorsi i cinque anni, se le singole Regioni saranno capaci di offrire gli stessi identici servizi sociali a costi inferiori, dovranno essere autorizzati dallo Stato a trattenere le differenze tra i costi storici e quelli medi nei loro territori per finanziare altre opere e servizi di cui i loro cittadini sentono il bisogno.
    Niente di problematico, quindi? C'è chi teorizza, non senza qualche ragione, che questo è l'unico modo per produrre efficienza amministrativa in generale e in particolare nel SUD, superando l'atavico spreco di risorse.
    >Il punto però è un altro. L'inefficienza del Sud non è dovuta a carenze antropologiche perché ciò contraddice l'esperienza di successo nel mondo e in Lombardia-Piemonte dei nostri meridionali. Le distorsioni e le inefficienze strutturali nel Sud (impiego di personale quadruplo rispetto il personale impiegato al Nord) si potranno superare con l'ingegneria istituzionale della redistribuzione delle competenze? O, piuttosto, inserendo il Sud in un circuito virtuoso di sviluppo del mercato aperto, l'uso intelligente dei fondi di coesione europei e la pianificazione di infrastrutture moderne?
    Ora come ora, per le Regioni meridionali appare assai arduo cogliere le “opportunità” prospettate teoricamente con l'autonomia differenziata. IL RISCHIO, dunque, è che nel medio periodo, fuori da un processo di sviluppo economico robusto e consolidato, in un quadro più ampio di quello strettamente nazionale, il divario delle condizioni di vita tra Nord e Sud continui ad allargarsi mettendo serio in pericolo (come insegna la vicenda spagnola) la coesione nazionale dopo quella sociale.

    Tommaso Basileo

























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