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Verona, 15 luglio 2021

Cancel Culture malattia infantile del Politically Correct?

    La nuova moda dell’abbattimento delle statue “scomode” proveniente dagli Stati Uniti ha qualcosa di veramente inquietante. Dal 2020 il dibattito sulla storia ha incrociato le manifestazioni di piazza. Da decenni non si discuteva con tanta passione, furiosamente, di storia patria.
    Una parte d’America ha deciso di condannare e cancellare Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson: cominciando dalle loro statue.
    Teddy Roosevelt non darà più il benvenuto ai visitatori del Museo di Storia naturale a New York. La sua rimozione dalla scalinata d’ingresso, su Central Park West, è stata chiesta a furor di popolo e decisa dal sindaco democratico Bill de Blasio, d’intesa con la direzione del museo. Ciò che ha condannato quella statua è la scena che raffigura: il ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti è a cavallo; a piedi ai suoi lati ci sono un indiano d’America e un nero, a simboleggiare la sottomissione delle due etnie. Già molto tempo prima il Museo di Storia naturale aveva aggiunto al piedistallo una placca con un commento critico sull’ideologia razzista del primo Novecento, per spiegare ai visitatori il contesto storico in cui nacque la statua.
    ORA SPIEGARE LA STORIA NON E’ PIU’ CONSIDERATO SUFFICIENTE: le statue sgradite devono scomparire. “il Museo americano di Storia naturale” si legge nell’annuncio del sindaco de Blasio “ha chiesto di rimuovere la statua di Theodore Roosevelt perché descrive neri e indigeni come popoli soggiogati e inferiori. La città appoggia la richiesta del museo”. Insomma, all’origine la statua di Roosevelt intendeva omaggiarne la figura come naturalista, ora essa comunica una gerarchia razziale che turba i visitatori.
    Teddy Roosevelt, cugino di terzo grado di un altro celebre presidente (Franklin D), è una delle figure più importanti della storia americana. La sua fu la prima presidenza “imperiale”, con una visione egemonica del ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Vinse un nobel per la pace per il suo ruolo di mediatore tra Giappone e Russia al termine della guerra del 1905. Fu uno dei pionieri dell’ambientalismo e dei parchi naturali. Fu l’interprete della cosiddetta “Era Progressiva”, guidò un’offensiva contro i monopoli (banche e ferrovie) usando per la prima volta in modo aggressivo la legislazione antitrust. Tutto questo scompare nel dibattito unidimensionale partito nel 2020, dove l’unica cosa che conta è cancellare visivamente ogni traccia del razzismo nella storia del paese.
    Non è chiaro come la scomparsa di questo genere di statue serva a capire meglio il passato, approfondirlo e criticarlo e, magari non ripeterlo.
    Tra le gesta del movimento iconoclasta, l’Università di Momouth, nel New Jersey, ha deciso di cancellare dai suoi edifici il nome del presidente Woodrow Wilson.
    Un’altra figura che perlopiù è ricordata per il segno progressista della sua azione: il “liberalismo umanitario” che appoggiò il diritto all’autodeterminazione dei popoli dopo la prima guerra mondiale, in aperto contrasto con gli imperialismi inglese e francese. Anche questo non conta, visto che Wilson (uomo del Sud) manifestò una certa indulgenza verso il segregazionismo, non vi si schierò apertamente contro.
    “NON DISTRUGGETE IL MEMORIALE DI ABRAHAM LINCOLN”. Il recente appello sul “Washington Post” può stupire chi non ha frequentato in questi ultimi tempi gli Stati Uniti. Ma è proprio così. La campagna di rimozione delle statue minaccia anche il presidente che vinse la guerra civile e spianò la strada all’abolizione dello schiavismo. A scendere in campo con quell’appello accorato è David W. Blight, storico e biografo di uno dei massimi esponenti della cultura afroamericana, Frederick Douglass. Per costruire il Memorial di Washington si erano autotassati gli afroamericani. Il loro leader Douglass tenne il discorso dell’inaugurazione, che si può rileggere oggi come un capolavoro di equilibrio e lucidità storica: vedeva tutti i limiti di Lincoln, ma ne riconosceva la grandezza. Douglass oggi verrebbe violentemente zittito nelle manifestazioni di piazza. Quello che conta, di questi tempi è l’immagine che rappresenta Lincoln eretto, mentre un ex schiavo nero è in ginocchio davanti a lui, nell’atto di liberarsi dalle catene. ORRORE!
    Che una “gerarchia razziale” sia esistita nella storia degli Stati Uniti – imposta con la violenza, dopo la tratta di carne umana dall’Africa – è un dato di fatto inoppugnabile.
    Che ne restino delle tracce nel paesaggio architettonico è un’offesa che si può cancellare per sempre “purificando” il panorama?

    Il confine culturale tra razzismo esplicito, negazionismo da una parte, revisionismo storico e relativismo culturale dall’altra, non è affatto netto e chiaro in questo tumultuoso contesto.
    In questa guerra delle statue c’è qualcosa che ricorda altri movimenti iconoclastici: dalle Guardie Rosse maoiste che distruggevano i templi buddisti e le biblioteche confuciane, ai talebani afgani che fecero esplodere antiche statue del Buddha.
    Distruggere le tracce del passato non è mai stato un modo per capirne le lezioni, di solito è servito a sostituire una forma di fanatismo con un’altra. Vero, sono giovani quelli che pensano di fare una rivoluzione culturale spazzando via le vestigia del passato; di purificare l’America dal razzismo distruggendo monumenti o cambiando i nomi delle strade. Sono però anziani gli ideologhi che soffiano sul fuoco dalle loro cattedre universitarie e dalle loro ville a Martha’s Vineyard.

    Tommaso Basileo

























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