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Verona, 4 Agosto 2018

I populismi illiberali distruggeranno le liberal-democrazie?

    Già alla metà degli anni ottanta dello scorso secolo l'architettura liberal-democratica che aveva sorretto e veicolato la crescita economica e sociale degli “anni d'oro” cominciò a far sentire qualche scricchiolio sinistro: a causa delle “promesse non mantenute”, come diceva Bobbio. Ma, dopo l'imprevisto, indimenticabile '89 tutti concordarono che le alternative al sistema liberal democratico si erano raggelate, esaurite, vanificate. Si giunse a teorizzare “la fine della Storia”.
    Una curiosità che la dice lunga. James Wolsey, direttore della Cia, mentre non era affatto convinto che la dissoluzione dell'URSS avrebbe prodotto un'epoca di stabilità, di pace e di benessere diffuso “Abbiamo ucciso il Drago, ma d'ora in poi vivremo in una giungla piena di serpenti velenosi”, non pensava, però, neppure lontanamente, che potesse entrare in fibrillazione il modello costituzionale liberal-democratico, vincitore assoluto del confronto.
    In realtà, in quegli stessi anni, John Dunn enunciò un inquietante paradosso: “Nonostante l'universale consenso che le viene tributato, la democrazia tende ad apparire, col passare del tempo e l'evoluzione della società, come un obiettivo sempre più irraggiungibile”.
    Che senso aveva questo paradosso in una prospettiva teorico-politica?
    L'aumento della differenziazione e della complessità sociale hanno posto, è vero, le premesse della rivendicazione liberal-democratica, ma è lo stesso aumento continuo (quasi fuori controllo) della differenziazione e della complessità sociale a rendere poco probabile che le costituzioni liberal-democratiche saranno in grado di resistere ad ogni nuovo assalto.
    Ma andiamo per gradi. La crescente differenziazione degli ambiti di esperienza individuali che Arnold Gehlen chiamava processo di soggettivizzazione contribuì a radicare, in una prima fase, nelle società post-industriali avanzate una crescente esigenza di autonomia rispetto alla dimensione organica della politica e ai suoi criteri protettivi di riduzione della complessità. In altre parole, la crescente complessità delle società consumistiche e informatiche, con l'amplissima gamma di possibilità e di esperienza che offrivano, hanno reso i cittadini sempre più sensibili alle mutilazioni politiche della loro esistenza e sempre meno disposti a subirle. IN UNA PRIMA FASE, quindi, con l'accresciuta contingenza della condizione umana, i soggetti apparivano sempre più orientati da desideri di espressione e di affermazione individuale, sempre più diffidenti nei confronti dei PROGETTI POLITICI trascendenti la dimensione quotidiana dell'esperienza vissuta, sempre più riluttanti a lasciarsi coinvolgere dai rituali della omologazione e della integrazione collettiva di cui la politica ha un bisogno vitale.
    Bisogna aggiungere, che le questioni emergenti, nel frattempo, risultavano sempre meno trattabili politicamente perché le soluzioni politiche richiedevano un consenso che era sempre più difficile ottenere con procedure formali. Infatti, la “VOLONTA' GENERALE” tendeva a disperdersi e frammentarsi in una molteplicità anarchica di particolarismi e di localismi territoriali e funzionali. La frammentazione individualistica del tessuto sociale, perciò, tendeva a ricomporsi secondo moduli di solidarietà particolaristica basata sul genere, sull'età, sulla professione, sulle condizioni di salute, su caratteri etnici, regionali o familiari, sulle forme di impiego del tempo libero, etc.
    Il bisogno stesso di fraternità e di comunione cominciò ad esprimersi in forme esoteriche, intimistiche che, nonostante o a causa dell'uso di Internet e dei social-network, sottrassero legittimità anziché fornirla alla dimensione collettiva della vita politica.
    SOLO IN UNA SECONDA FASE, al centro del vortice degli effetti prodotti dalla Globalizzazione e con la prospettiva di un rapido sviluppo tecnologico, gli individui e i gruppi sociali non si sono più sentiti in grado di gestire i rischi sociali e di “ridurre la paura” indipendentemente da un sistema politico concentrato e specializzato che garantisce la libertà di tutti e di ciascuno.Così come avvenne dopo la Grande Guerra, dopo la Grande Crisi del 2008, si passò dalla “società dei due terzi” alla società delle maggioranze frustrate, sofferenti, impaurite e rancorose. La voglia di autonomia si è trasformata per molti, troppi in bisogno di protezione.
    È in questa fase che nascono le spinte populiste illiberali più vigorose.

    I partiti liberal-democratici e social-democratici, in tutto l'Occidente hanno, da anni, riconosciuto che la Globalizzazione e il processo di modernizzazione, con lo sviluppo delle applicazioni tecnologiche della scienza, inducono fenomeni politico-sociali di segno opposto, facendo emergere un tema centrale per la riflessione democratica: la necessità, comunque, di coniugare le rivendicazioni della democrazia con l'esigenza della “conservazione della complessità”.
    È da almeno un decennio che circola insistente la previsione che nessun regime politico democratico del futuro sarà in grado di mantenere integralmente le “promesse della democrazia”, se non sarà in grado di dotarsi di istituzioni, di procedure giuridiche e di forme politico-amministrative più complesse e differenziate: e cioè più articolate, più ricche di competenze e di cultura specialistica, più pronte a replicare alla variabilità dell'ambiente e alle sue crescenti interdipendenze con strategie riflessive di autoprogrammazione, di autocorrezione e di partecipazione.
    In altri termini, se i democratici non sapranno rapidamente definire un Progetto Politico credibile che, senza mettere in questione Società Aperta, libero scambio e libertà costituzionali, sappia addomesticare gli effetti più impopolari della Globalizzazione, ridefinisca un Nuovo Stato Sociale del XXI° secolo, ristabilisca la legalità sui temi della sicurezza, corruzione e disinformazione, il modello politico istituzionale liberal-democratico sarà sopraffatto.
    Se, come fa Yascha Mounk, ci soffermiamo, in conclusione, a riflettere sui tre esperimenti populisti di successo più recenti e cioè, il modello russo di Putin il più consolidato, il modello ungherese di Orban e quello USA di Trump, quali sono le similitudini e le differenze tra queste tre vie?
    Il modello Putin e quello Orban si possono definire come una forma-Stato democratico-illiberale su base nazionalistica. Putin costruì il suo modello sulle rovine dello Stato sovietico. Orban, invece, ereditò uno Stato democratico nuovo di zecca e una volta conquistata la maggioranza relativa (che ora è diventata assoluta) ha occupato tutta l'informazione pubblica, la Commissione elettorale e la Corte Costituzionale. Il modello Trump, tutt'altro che consolidato, ha alcune assonanze con gli altri due (ostilità verso la Società aperta e il libero scambio) ma, negli USA, sarà MOLTO difficile determinare un collasso delle libertà Costituzionali liberali e della divisione dei poteri.
    IL NUOVO GOVERNO GIALLOVERDE in Italia presenta molte preoccupanti similitudini con il modello ORBAN. Se riuscirà a consolidarsi, prenderà quella fisionomia.

    Tommaso Basileo

























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