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Verona, 6 Febbraio 2018

È compatibile il razzismo con la democrazia?

    Da poco abbiamo commemorato il “giorno della Memoria”, e abbiamo preso atto dell'ottima scelta simbolica di nominare senatrice a vita la Dottoressa Liliana Segre testimone della Shoah, da parte del nostro Presidente Mattarella, ottant'anni esatti dopo “La difesa della razza”.
    Proviamo, ora, a fare un discorso senza farci sommergere dalla cronaca quotidiana.
    Parliamoci chiaro: democrazia significa considerare tutte le persone in modo uguale – in termini di dignità e di opportunità di realizzazione personale. Il razzismo è il modo fondamentale per operare una distinzione fra coloro che possono godere di diritti e gli altri, che non possono. Il razzismo definisce questi ultimi come “inferiori” e, allo stesso tempo, ne offre una giustificazione capziosa, irrazionale e pseudo-scientifica (teorie ottocentesche positiviste completamente falsificate). Quindi, per rispondere alla domanda di fondo: NO, IL RAZZISMO NON PUÒ ESSERE COMPATIBILE CON LA DEMOCRAZIA.
    Certo i totalitarismi nazi-fascisti furono fucine di odio razziale, ma le democrazie Occidentali, che a questi si contrapponevano, nei loro spazi coloniali e imperiali, ebbero di fatto, se non ideologicamente, comportamenti non immuni da razzismo. Non è una questione di lana caprina.
    Stiamo parlando, in sostanza, del modo attraverso cui la promessa di criteri universalistici da parte del nucleo fondamentale dei valori liberali, fatti propri dalle socialdemocrazie, è stato per lungo tempo sistematicamente, deliberatamente e costantemente eluso.
    Un esempio storico cruciale fu la manifestazione di debolezze e contraddizioni che emersero fra le nazioni democratiche sul tema drammatico dell'ospitalità da dare ai rifugiati ebrei in fuga dalla Germania nazista, prima della Soluzione Finale. Sottrarre centinaia di migliaia di persone dalle grinfie di psicopatici criminali doveva essere un imperativo categorico. Peraltro, si era già a conoscenza del ripensamento sui vaghi propositi nazisti di traslocare, da vivi, gli ebrei tedeschi in Palestina. Era stato il Gran Muftì di Gerusalemme, nei suoi frequenti viaggi a Berlino, a dissuadere i tedeschi: “Venite, piuttosto, in Palestina a “spianare” gli insediamenti ebraici”. Nella Conferenza di Evian, nel luglio 1938, i paesi democratici si incartarono con il problema delle “quote” per l'accoglienza di ca 600.000 persone. Sul piano operativo l'applicazione dell'accordo, come è noto, fu un completo fallimento.
    >Surreale fu la vicenda che riguardò il transatlantico St. Louis, nell'estate del '39, comandato da Gustav Schroeder (un Giusto), sballottato di porto in porto in tutto il Nord-America perché nessuno voleva far sbarcare i 963 ebrei tedeschi in fuga.
    Emblematica, per capire le ragioni del fallimento di Evian, fu la dichiarazione del delegato australiano che sentenziò: “non avendo problemi razziali, non desideriamo certo importarli”. Infine, per sottolineare i paradossi della storia umana: ad accogliere 100.000 ebrei, di fronte al totale diniego degli Stati Liberi fu, nel 1940, la Repubblica Dominicana retta dal tiranno anticomunista Trujillo. Intendiamoci, tutto ciò nulla toglie alla riconoscenza infinita che dobbiamo all'intervento liberatore anglo-americano che unito alla Resistenza eroica, all'ultimo sangue, del popolo sovietico annientò la furia distruttiva dell'orda reazionaria e razzista. Tornando all'oggi, debellati i feroci regimi razzisti, la matassa resta sempre ingarbugliata.
    Si sa che i democratici, credenti e non, devono stare dalla parte del popolo, ma se il popolo odia gli stranieri? Se il popolo aderisce, in maggioranza, ad un'agenda politico-programmatica semplice, diretta, banale: “Tutti fora dai bai!”? Che fare? Non c'è dilemma più nitido.
    Un infimo numero di amministratori di sinistra del Nord-Italia, in più di una occasione, hanno goffamente cavalcato l'ostilità dei loro cittadini verso africani e rom e slavi, facendo sollevare ovviamente un gran polverone da chi, politicamente, con questo fenomeno crudo e complesso s'ingrassa e vive di rendita. Non dico che sia semplice per dei politici mettersi contro il popolo. Nessuno, poi, ci tiene a passare per difensore di predatori o violentatori. Tuttavia, se non si ha il coraggio e la determinazione di tener ferma la barra su certi principi fondamentali, sarebbe meglio astenersi dal fare politica.
    Sappiamo che la faccenda è assai complicata; più volte negli ultimi anni, soprattutto nella interminabile campagna elettorale italiana, si è ricordato che ordine e legalità non sono di destra (certo, non si costruisce nulla nel disordine e nell'illegalità), così come integrazione e diritti riguardano tutti, FORSE.
    Intano, anche la parte bacata dell'informazione nazionale fa la sua parte: impazzano leggende metropolitane secondo cui richiedenti asilo, clandestini e rom, riceverebbero sussidi quotidiani dagli enti locali, e il volontariato cattolico li alloggerebbe a scapito dei concittadini senza tetto.
    Su tutto un altro piano, veramente originale, si pongono gli “antagonisti”, che hanno imboccato una direzione diametralmente opposta: elevare i migranti irregolari a nuovi protagonisti metropolitani anti-sistema, surrogati di un proletariato ormai cooptato nel blocco di potere.
    Soprattutto da quando è esploso il fenomeno del terrorismo “islamico” è diventato comune ritenere fallimentari tanto il modello assimilazionista del repubblicanesimo francese quanto quello multiculturalista britannico.
    In ogni caso, occorre dire che non è facendo leva su atteggiamenti che si presumono corretti politicamente che si costruisce una politica credibile con cui governare il delicatissimo e complicatissimo fenomeno dell'immigrazione e conquistare la fiducia degli elettori. È pericoloso giocare la competizione politica contrapponendo e radicalizzando due identità antropologiche, l'una xenofoba che punta tutta la sua azione e propaganda sulla diffidenza e l'esclusione, l'altra inclusiva che punta tutto sull'accoglienza e l'empatia. Si dovrebbe invece offrire la proposta migliore in termine di giustizia e praticabilità, dopo aver censurato senza sé e senza ma ogni forma di manifestazione razzista e violenta.
    Come è noto, il processo democratico garantisce legittimità già in virtù delle sue caratteristiche procedurali. Perciò esso può entrare in funzione ogni volta che occorre riempire i vuoti dell'integrazione sociale oppure, di fronte a una modificata composizione culturale della popolazione, produrre una cultura politica comune.
    È un fatto che l'esistenza di ogni singolo individuo dipende sempre da tradizioni intersoggettivamente condivise e da comunità che ne plasmano l'identità. Ciò spiega perché nelle società culturalmente differenziate, sia in quelle che lo sono da sempre sia in quelle che gradualmente lo stanno divenendo, l'integrità della persona giuridica non possa essere tutelata a prescindere dalla garanzia di eguali diritti culturali.
    Dopo essersi dilatata a cultura nazionale, la cultura di maggioranza, dovrebbe consentire a tutti gli stranieri che hanno diritto di risiedere stabilmente in un Paese di identificarsi con la cultura politica dello stesso Paese. Solo così la solidarietà verso i nuovi cittadini potrà, anche se non ne è garantito il successo, riconvertirsi sulla base più astratta del “patriottismo costituzionale”.
    Per questo motivo non riesco a comprendere fino in fondo le ragioni della crescente diffidenza e ostilità che si è recentemente manifestata in Italia, anche in frange di popolo credente e laico, sicuramente democratiche, verso il famoso Ius Culturae.

    Tommaso Basileo

























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