L'ISTRICE


Quando le notizie pungono


Le Rubriche


 

Sommario

Libri

SeBook

Ex Libris

Dialettando.com

Home Page Simonel

The Web Park Speaker's Corner

   

 

n. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - Verona, 16 Giugno 2016

Migrazioni,
tra guerre civili e povertà

    Sono oltre 250 milioni le persone che per ragioni diverse vivono ormai in città e nazioni che non sono quelle delle loro origini. La drammatica diagnosi di Hanna Arendt, secondo la quale il simbolo della nostra epoca sarebbero stati i senza patria, i diseredati e i profughi, ha trovato conferme spaventose verso la fine del '900, mentre ne stiamo registrando una preoccupante amplificazione nel XXI° secolo.
    I vecchi campi di accoglienza che servirono nell'Europa distrutta dalla seconda guerra mondiale per i rifugiati e immigrati, non riescono più a contenere il flusso delle nuove ondate migratorie. Un problema gigantesco che può essere affrontato solo da una “forte, lungimirante e solidale” politica comune dell'Unione. Questi movimenti massicci e incontrollati anche se prevedibili dal Medio Oriente e dall'Africa, se non troveranno efficaci e realistiche risposte, finiranno per funzionare alla stregua di pesanti, rovinose sanzioni. Costringeranno l'Unione Europea (anche i 20 componenti senza una storia coloniale) a fronteggiare le responsabilità rovesciatele addosso dalla bancarotta del modello postbellico di sviluppo post-coloniale e dalla più recente surreale pretesa transatlantica di esportare, manu militari, la democrazia occidentale.
    Anche se il carattere monolitico delle culture nazionali occidentali è da tempo in via di liquidazione, non deve suscitare molta meraviglia il fatto che gli uomini e le donne europei, che appena trent'anni fa consideravano il loro mondo assolutamente stabile, abbiano oggi il timore della perdita della loro identità.Il totale divorzio dell'ethnos dal demos finora non ha quasi mai funzionato se non nel Nuovo Mondo: La peculiarità americana è che la stragrande maggioranza della popolazione è formata (tranne gli africani prelevati a forza) da individui e famiglie assommati ad individui e famiglie, arrivati volontariamente l'uno dopo l'altro nelle grandi città portuali.
    La storia mostra che le migrazioni hanno sempre portato dinamismo e innovazioni.Rendere vivibile Babilonia sarà uno degli scopi fondamentali della politica del futuro. C'è una ricchezza potenziale nella diversità e questa risorsa va valorizzata.Ma quali sono le condizioni economiche, sociali, istituzionali, culturali che devono sussistere perché la sfida si riveli produttiva? Soltanto prendendo le mosse dai problemi che le migrazioni pongono si può sperare di dare una risposta alla sfida senza oscillare tra cinismo e retorica, tra indifferenza e commozione.
    In primo luogo, se non vogliamo essere né superficiali né ipocriti dobbiamo dire che tutte le ricerche empiriche mostrano come l'emigrazione non riesce ad alleviare in modo sostanziale la pressione demografica e il sottosviluppo dei paesi da cui origina, mentre certamente impoverisce quei paesi degli elementi più giovani, scolarizzati e potenzialmente innovativi, operando quindi una sorta di selezione negativa.
    In secondo luogo è dimostrato che i trasferimenti monetari degli emigrati non raggiungono una dimensione e una destinazione tali da innescare nei paesi d'origine un circolo “virtuoso”, venendo assorbiti prevalentemente dal consumo e dal terziario.
    Infine, anche sul versante delle qualificazioni acquisite dalla forza-lavoro, il beneficio resta quanto mai limitato, dal momento che gli emigrati o non tornano o tornano senza aver acquisito specializzazioni o quando non possono più essere portatori di innovazione nei settori cardine dell'economia.
    Insomma, la realtà ci mostra, con tutta evidenza, che i toni viscerali della retorica xenofoba non hanno alcun fondamento se non negli scopi propagandistici di facile conquista di consenso attraverso l'istigazione di una percezione distorta e abnorme del fenomeno, agitata in un contesto di crisi dentro una bolla di rabbia, rancore e paura. Questi agitatori di professione che, con tanto “buon senso” sollecitano i governi europei ad aiutare “questa gente” nei loro paesi, sparano a zero poi contro ogni iniziativa concreta di aiuto diretto o indiretto (quando la UE allenta il suo protezionismo facilitando lo scambio per lo sviluppo).
    Finora gli emigrati hanno impoverito i loro paesi d'origine e contribuito a far sviluppare i paesi d'approdo. La presenza degli stranieri in Europa non è affatto un peso da sopportare, bensì un fattore di estrema utilità economica. Se ipoteticamente venisse a mancare questa presenza nelle grandi aziende manifatturiere, ma anche nelle piccole industrie, in molti settori, in tantissimi servizi, si determinerebbe di colpo una drammatica carenza di forza-lavoro, cui solo in piccola parte si potrebbe trovare rimedio, nella manifattura 4.0 che non è propriamente dietro l'angolo. Un ipotetico esodo degli immigrati, dunque, non solo non allevierebbe la nostra disoccupazione ma la aggraverebbe nelle categorie intermedie, a elevato contenuto professionale e soprattutto fra i giovani. Senza parlare del buco nero che si aprirebbe nel nostro Sistema Previdenziale che essendo, in tutta Europa, a Ripartizione (i contributi degli attivi alimentano le prestazioni degli inattivi) entrerebbe in gravissimo affanno.
    Il grande dislivello di natalità e la pressione demografica, l'enorme squilibrio economico e civile, la rivoluzione dei mezzi di comunicazione e l'unificazione del Villaggio Globale sono fattori sufficienti a spiegare l'entità delle nuove migrazioni, ma come possiamo spiegare e tollerare la morte nel Mediterraneo di 3.871 persone dal 1990 ad oggi, nonostante l'impegno profuso soprattutto dall'Italia?
    Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che il dovere solidaristico di ospitalità può entrare in conflitto con il diritto dei cittadini già insediati a difendere la specificità della propria cultura politica e istituzionale. La nozione di un “obbligo morale”, derivante dalla consapevolezza dell'interdipendenza globale e dalla storia della colonizzazione, che avrebbero le società ricche di accogliere, oltre che giustamente e doverosamente i Profughi di guerre e genocidi, TUTTI gli immigrati che chiedono “asilo economico” è problematica. Quell'obbligo non è tale da fondare “un diritto individuale giuridicamente esigibile”, ma è condizionato dalla “capacità d'accoglimento” delle società aperte.
    Interessante e realistico mi sembra il suggerimento che diede il compianto John Rawls: “Bisogna valutare la possibilità di giustificare legittime restrizioni al diritto d'immigrazione muovendo dall'esigenza di evitare conflitti e problemi che, per la loro entità, sarebbero in grado di rappresentare una seria minaccia all'ordine pubblico o alla riproduzione economica della società. Per contro, la discendenza genetica non potrebbe giustificare nessun privilegio e nessuna esclusione nella concessione della residenza o della naturalizzazione”.
    In ogni caso, senza una autentica apertura umanistica sarà molto difficile vivere un'epoca di integrazione pluralistica nella quale le differenze storicamente accumulatesi si trovano a convivere porta a porta.

    Tommaso Basileo
























© Copyright Simonelli Editore - All the rights are worldwide reserved