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Verona, 3 Luglio 2017

Scuola e lavoro che cambia: miti e pregiudizi

    Se fossimo tutti d'accordo a definire IL LAVORO come quell'attività che si svolge nella sfera pubblica, un'attività richiesta, definita e riconosciuta utile da altri che, per questo, la retribuiscono. Se concordassimo, almeno, che è attraverso il lavoro (non con la pubblica carità) che acquisiamo un'esistenza e un'identità sociale, inserendoci in una rete di relazioni e di scambi in cui ci misuriamo con gli altri e ci vediamo conferiti diritti su di loro in cambio di doveri. Bene, se ci fosse accordo su tutto ciò credo non circolerebbero così tanti luoghi comuni sbagliati. Da dove nasce, ad esempio, la feroce ostilità verso l'alternanza scuola-lavoro? Per troppi soggetti (famiglie, insegnanti, studenti) la scuola non deve formare al mondo del lavoro. Anzi, la scuola non deve essere contaminata dalle realtà delle aziende. Spesso i professori alimentano nei ragazzi la convinzione che il mondo aziendale sia un universo parallelo. Come meravigliarsi, poi, se esiste un profondo disallineamento tra ciò che richiedono le aziende e ciò che offre il sistema dell'istruzione? Intendiamoci, dall'indagine del 2015 Education to Employment di Mc Kinsey apprendiamo che lo scetticismo dei datori di lavoro sulla preparazione scolastica è un fenomeno assolutamente globale che va dagli Stati Uniti all'India passando per l'Inghilterra, la Germania e il Brasile.
    È dannosa la convinzione che la formazione della persona vada oltre le sue abilità lavorative? NO. È condivisibile l'asserzione che l'istruzione debba servire a formare la personalità dell'individuo, la sua capacità di pensare criticamente e di convivere bene con gli altri? SÌ, certamente. Ma cosa c'entra questo con il sostenere che la formazione culturale è, e deve restare, un elemento completamente distinto dalla preparazione al lavoro? Questo è il MITO della cultura fine a se stessa che molti si portano dietro dalle scuole superiori e che raggiunge il suo apice all'università. Questo mito ha attraversato i secoli e in Italia è stato adottato prima dall'aristocrazia, poi dalla borghesia opulenta e dai grandi proprietari terrieri, quindi ha attecchito anche fra i ceti medi. Questa visione è, secondo me, profondamente classista e ha potuto funzionare nei secoli scorsi ma è inconcepibile nella società e con l'economia dei nostri giorni.
    L'obiettivo della Scuola dovrebbe essere: insegnare “come pensare” e non “cosa pensare”. La domanda chiave dovrebbe essere: come deve cambiare la scuola per far fronte al mondo del lavoro? Insegnare agli studenti le nozioni non basta, perché nel mondo del lavoro “saper fare” è, addirittura, più importante che “sapere”. Le cosiddette capacità cognitive, come saper risolvere problemi, capire le sfumature del linguaggio, utilizzare la logica, interpretare l'enorme mole di dati da cui siamo bombardati nella vita di tutti i giorni, sono una cosa molto diversa dal conoscere fatti storici, formule, punti di vista teorici per quanto autorevoli. Questo approccio ha bisogno di insegnanti sempre aggiornati e valutabili.
    C'è dell'altro che alimenta la radice del caos che prolifera sui programmi scolastici: è l'accumulo di novità senza avere il coraggio di rinunciare a nulla, l'incapacità di sfrondare il curriculum obbligatorio focalizzando l'insegnamento su pochi argomenti approfonditi. Dovrebbe essere chiaro ormai che tutto è cambiato. Dall'impianto gentiliano lo studio della Storia ha guadagnato novant'anni, della fisica cinquanta, la biologia ha sviluppato pressoché ex novo l'80% di quello che si insegna oggi. Ci aveva provato Luigi Berlinguer nel 1997 a sfrondare ma la sua riforma, su questo punto, è rimasta inapplicata.
    Ci sono delle ottime possibilità di miglioramento. Da vent'anni abbiamo, finalmente, i mezzi per mettere a nudo tutte le carenze della scuola: il Program for International Student Assessment dell'Ocse+diverse nazioni partner designato con l'anagramma PISA.
    Schleicher, con il Pisa, ha messo a punto un test che consente di confrontare le abilità di studenti di Paesi diversi su basi oggettive, senza utilizzare indicatori come i voti o le percentuali di promossi, che dipendono dal metro di giudizio degli insegnanti. E quindi di paragonare le qualità dei vari sistemi educativi. La capacità di rispondere correttamente alle domande dei test Pisa (www.oecd.org/pisa/.) indica il possesso di due tra i requisiti più importanti dal punto di vista delle aziende: la capacità di problem solving e la comunicazione scritta. A proposito di luoghi comuni e pregiudizi, in Europa in testa alla classifica dei migliori sistemi scolastici non sta la Germania o l'Inghilterra ma la Finlandia e la Polonia. Nel mondo, fra i primissimi posti, c'è la Corea del Sud, Singapore e la Cina, non gli USA.
    Del resto, la metafora del lavoro del XXI° secolo descritta dal rapporto Oivallus è quella del jazz: musica che include qualità come lo swing, l'improvvisazione, l'interazione, lo sviluppo di una voce individuale e l'essere aperti a differenti possibilità. La formazione deve adeguarsi a questa musica.
    Uno dei valori principali della formazione specialistica dovrebbe essere quello di consentire allo studente, di scuola superiore o universitario, di affrontare problemi veri, che nella maggioranza degli studi generali, spesso mancano. I problemi reali offrono una gamma di sfide pratiche e concettuali che nessuna simulazione potrà eguagliare. Le imprese, i datori di lavoro, vogliono apertura mentale, e oggi insegnare eccessive specializzazioni tecniche non ha molto senso, perché la tecnologia cambia continuamente. Meglio che i diplomati e i laureati abbiano la flessibilità per imparare ad adattarsi. I giovani devono imparare a ragionare, a lavorare in team, a usare il digitale e a risolvere problemi.
    Anche il livello di insegnamento universitario in Italia è afflitto da gravi problemi. Le nostre non sono Università scadenti, intendiamoci. Alcune sono di assoluta eccellenza mondiale. Il problema è che sfornano troppi laureati senza reali prospettive, troppo vecchi per il mercato del lavoro e con poca formazione nelle soft skill che i datori di lavoro richiedono ai futuri dirigenti. Comunque, se già oggi il 70% dei posti di lavoro per diplomati e laureati si trova nelle aziende, nel medio termine, il mondo delle imprese italiane (soprattutto medie e grandi) diventerà sempre più interessato ai laureati di quanto non lo sia stato negli ultimi venticinque anni. La crescita dei laureati nel mondo è impressionante e irreversibile anche nei paesi emergenti. L'Italia dovrà adeguarsi. Il vero problema non è l'eccesso di offerta di laureati in materie umanistiche, ma nella povertà e arretratezza della didattica di molte nostre università.
    Le buone università (quelle da cui quando si esce si trova presto lavoro) in Italia ci sono. Per orientare bene le loro scelte i giovani dovrebbero consultare le statistiche Alma Laurea sui tempi e numeri di occupazione dei neo-laureati usciti dalle varie università. In molte delle buone università c'è il numero chiuso (introdotto con Legge 264/99 dal Min. Ortenzio Zecchino Gov. D'Alema, su sollecitazione Consulta) contro cui tuonano, invocando il “diritto di studio” a rischio di alimentare dannose illusioni, molti docenti, politici e sindacalisti. Personalmente, ritengo che il numero chiuso e i test d'ingresso hanno qualche “controindicazione”, ma potrebbero essere superati solo a due condizioni: se il primo anno non si superano almeno i fondamentali del piano di studio si è fuori; ai fuori-corso, non lavoratori, si raddoppiano le tasse d'iscrizione. In Italia solo il 60% degli iscritti nelle università arriva alla laurea con mediamente tre anni di ritardo. Uno sperpero di risorse umane ed economiche colossale che non sussiste in nessun altro Paese.
    Tutti i giovani “fortunati” nel lavoro hanno una caratteristica in comune: grande entusiasmo e voglia di provare nuove esperienze, mettersi in gioco, testare i propri limiti, imparare dagli errori, muoversi fuori dal proprio contesto abituale e cercare continuamente la propria strada con determinazione.
    I datori di lavoro non si fidano di un diplomato o di un laureato che non ha mai fatto un lavoretto estivo, di qualsiasi tipo. Che non ha mai fatto neanche una esperienza socializzante (anche nel volontariato).
    Internet viene oggi in aiuto dei giovani più volenterosi che non hanno il supporto di università organizzate nel trovare loro il lavoro in un'azienda. EuropeInternhips.com e Globalplacement.com sono siti che da anni ormai aiutano gli studenti di tutto il mondo a trovare opportunità di lavoro.

    Tommaso Basileo

























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