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Verona, 1 Dicembre 2017

Perché è così difficile
in Italia parlare
di meritocrazia e disuguaglianza?

    “Le resistenze ideologiche all'adozione di criteri meritocratici, il più delle volte, soprattutto in Italia, fanno riferimento al fatto che la meritocrazia legittima le differenze retributive e, dunque, le diseguaglianze nei livelli di reddito. Questo è vero. Ma non è affatto vero che l'assenza di meritocrazia sia accompagnata a disuguaglianze di reddito più contenute.
    L'esempio ce lo fornisce proprio il nostro paese: una delle società meno meritocratiche dell'area Ocse, dove c'è una fortissima persistenza nello status sociale di genitori e figli. Da noi, quindi, rileviamo disuguaglianze più marcate di quelle di paesi relativamente meritocratici, come il Regno Unito, e di paesi in cui i salari premiano molto più che da noi il livello di istruzione e specializzazione acquisito, come nei paesi nordici. È decisivo, poi, chiedersi se sia meglio avere diseguaglianze che riflettano divari di produttività o diseguaglianze basate su rendite di posizione (familiare).
    Un'obiezione sottile, molto insidiosa, è stata spesso mossa alla meritocrazia: la produttività non riflette solo lo sforzo, l'impegno profuso, ma anche abilità innate, talenti naturali. Se qualcuno è talmente fortunato da avere certe doti, si dice, non si vede perché lo si dovrebbe premiare ulteriormente.
    Queste obiezioni, si badi bene, hanno radici molto profonde e assolutamente autorevoli. Si pensi soltanto a una massima tanto amata: “A ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le proprie capacità” (K. Marx: Critica del programma di Gotha – Atti degli Apostoli cfr At 4, 35)
    >. Ora, è verissimo che la produttività di una persona può in parte riflettere caratteristiche “genetiche” o abilità non cognitive (come il senso di autostima) anziché reazioni o comportamenti, legati all'ambiente in cui vive e agli incentivi che questo pone in essere. Però, è altrettanto vero che è pressoché impossibile separare queste componenti genetiche da quelle ambientali, separare il “talento” dall'”impegno”. Ma anche in questo caso non è vero che l'assenza di meritocrazia rimedia alle iniquità potenzialmente associate alla fortuna, al fatto di avere avuto dei bravi genitori o dei bravi nonni.
    Nel nostro strano paese, molto particolare, molto poco meritocratico, si permettono le stesse disuguaglianze fra il reddito delle superstar e i “comuni mortali” di paesi molto, ma molto più meritocratici. I manager italiani hanno potuto avere per decenni non solo redditi centinaia di volte più elevati dei loro dipendenti, ma anche beneficiare di un regime fiscale molto più favorevole di questi ultimi (e che si vorrebbe riproporre con la Flat-tax). Il fatto poi che molti manager italiani ricevano remunerazioni così alte, anche se le loro aziende vanno malissimo, licenziano migliaia di persone e distruggono valore, rende ancora più intollerabili le disuguaglianze.
    In molti ritengono che l'idea stessa di legare remunerazione a produttività riduca il senso di solidarietà, ostacoli i comportamenti cooperativi in un'organizzazione o nella società nel suo complesso. Ma il legame fra salario e produttività può anche essere stabilito a livello collettivo, coinvolgere il gruppo di lavoratori, l'azienda, la scuola ecc. Bisogna aggiungere che una competizione basata su regole condivise non è necessariamente più lesiva della coesione sociale di una gara che si svolge senza regole e concedendo vantaggi incolmabili ad alcuni.
    In conclusione, è soprattutto in termini pragmatici che bisogna continuare a discutere di merito e di meritocrazia in Italia. Solo così avremo meno apologeti e detrattori, e più ragionamenti che soppesino pro e contro di soluzioni diverse e un confronto più informato che entri nel merito di tanti modi diversi di introdurre maggiori criteri di merito nel nostro paese.

    Tommaso Basileo

























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